di Alberto Brambilla. Caro direttore, nel nostro Paese assistiamo ad un paradosso, tra i tanti; le performance del risparmio puramente finanziario — come del resto in tutto il mondo — sono tassate a scadenza, mentre quelle del risparmio previdenziale, costituzionalmente tutelato, subiscono — caso rarissimo tra i Paesi Ocse — una imposizione annuale.
In pratica, chi sottoscrive un prodotto finanziario o assicurativo e lo tiene per 15 anni beneficerà di performance lorde e pagherà l’imposta sui rendimenti solo quando materialmente verrà in possesso dei suoi soldi (al momento del riscatto finale); il sottoscrittore del fondo pensione — che è per definizione uno strumento di medio-lungo termine — paga invece l’imposta sui rendimenti ogni anno e, nel caso di performance negative, accumula un credito d’imposta, che potrebbe anche perdere, come è successo alle centinaia di migliaia di risparmiatori italiani sottoscrittori di fondi comuni quando anche questi (fino a qualche anno fa) erano tassati annualmente. Come si vede, al di là delle grandi difficoltà di contabilizzazione dei fondi, c’è qualcosa che non quadra.
Questo differente sistema di tassazione riduce inoltre il già flebile vantaggio fiscale del risparmio previdenziale (che non è una rendita finanziaria) rispetto agli altri strumenti, oggi di soli 6 punti percentuali. Già, perché nella legge di Stabilità il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan hanno aumentato la tassazione dei fondi pensioni dall’11 al 20 per cento. Eppure in tutta Europa si cerca di agevolare fiscalmente il cittadino che pensa al proprio futuro; in tutta Europa si è ormai imboccata la strada del welfare mix perché è chiaro che i sistema pubblici di protezione sociale — in primis quello pensionistico — non riusciranno a essere sufficienti.
I fondi pensione, quindi, sono molto importanti anche se qualche economista ritiene che le nostre pensioni pubbliche saranno sufficienti poiché il «tasso di sostituzione» (cioè il rapporto tra la prima rata di pensione e l’ultimo reddito da attivo) è oltre il 70 per cento per i lavoratori dipendenti. A parte la sovrastima insita nei conti della Ragioneria generale dello Stato, occorre considerare che su stipendi di 1.000-1.100 euro il 65 per cento fa più o meno 700 euro, cioè una pensione appena sopra la minima; ancor meno per gli autonomi e liberi professionisti. A chi si rivolgeranno, quando ne avranno necessità?
Inoltre la legge attuale prevede che, per tutti i lavoratori che hanno iniziato l’attività dal primo gennaio 1996, non ci saranno più le integrazioni al minimo e le maggiorazioni sociali di cui oggi beneficiano quasi 5 milioni di pensionati su 16,5 milioni. Erodere le pensioni complementari tassando i rendimenti al 20 per cento rende meno convenienti i fondi pensione, oltre ad aver ridotto la fiducia dei lavoratori nei confronti dello Stato che prima ti incentiva ad entrare nel sistema della previdenza complementare e poi, quando non ne puoi più uscire, ti tassa rimangiandosi il «patto» iniziale.
Sarebbe ingeneroso non riconoscere all’attuale governo una capacità innovativa e propulsiva a favore dello sviluppo del Paese; un lavoro non ideologico che vi ha portato anche a correggere in corsa alcuni provvedimenti sbagliati e di cui vi va dato atto. Proprio per questo auspico che, con la delega fiscale, il regime di tassazione dei fondi pensione possa tornare ad essere incentivante. Ciò andrà sicuramente a favore dei lavoratori, ma anche dello Stato e del Paese che di queste risorse potrà beneficiare. La vera politica è di lungo periodo; avere un piano nazionale di welfare mix di lungo termine conferisce sostanza alla politica stessa.
*Economista, estensore del decreto 252/05 – Il Corriere della Sera – 25 febbraio 2015