Luigi Grassi. L’Italia scivola nella spirale della deflazione. La strenua lotta della Bce di Mario Draghi contro il ristagno dei prezzi non riesce a impedire che nel mese di gennaio dieci fra le principali città italiane (capoluoghi o con più di 150 mila abitanti) subiscano una variazione annua dei prezzi nulla o addirittura negativa. Cosa che sarebbe ottima se dipendesse da un aumento generale della competitività del sistema-Paese, ma risulta malsana quando (come nel caso attuale) deriva da una crescita economica stentata che non mette in circolo la ricchezza.
Dice l’Istat che a Milano, Firenze, Perugia, Ravenna, Reggio Calabria e Palermo i prezzi nel mese scorso sono rimasti fermi rispetto a gennaio 2015. E hanno registrato tassi negativi Bari (-0,3%), Potenza (-0,2%), Trieste (-0,2%) e Verona (-0,1%).
Anche nelle altre città italiane il tasso d’inflazione a gennaio pur se positivo resta lontanissimo dall’obiettivo della Banca centrale europea, vicino al 2%. Per quanto riguarda i capoluoghi delle Regioni e delle province autonome, sono Aosta, Bolzano, Venezia e L’Aquila (+0,6% per tutte e quattro) le città in cui i prezzi hanno registrato gli incrementi più forti rispetto al gennaio del 2015. Seguono Bologna (+0,5%), Napoli, Genova e Trento tutte e tre +0,4%), Ancona (+0,3%), Torino, Cagliari e Catanzaro (+0,2%) e Roma (+0,1%).
Comunque se si guarda alla media di tutta l’Italia l’Istat osserva «un lieve rialzo» dell’inflazione, aumentata a gennaio dello 0,3% su base annua (era stata solo +0,1% a dicembre) tornando al livello di ottobre 2015. Questo vale per il confronto tendenziale (cioè sui dodici mesi) mentre in termini congiunturali (cioè nel confronto fra dicembre e gennaio) i prezzi al consumo diminuiscono dello 0,2%, cioè a un livello da deflazione.
A tenere giù l’inflazione sono stati soprattutto i carburanti: il prezzo della benzina su base annua ha fatto a gennaio -2,9% (dopo il -7,8% di dicembre) mentre il gasolio auto ha registrato nel primo mese del 2016 un -10,1% (dopo il -11,4% di dicembre 2015).
Suo malgrado l’agricoltura subisce un crollo dei prezzi alla produzione: si va dal -60% per cento dei pomodori al -30% per il grano duro, e al -21% per le arance rispetto all’anno scorso. Questo, attenzione, non vuol dire che i prezzi al consumo dei prodotti si abbassino nella stessa misura; la differenza viene intascata da qualcun altro. La Coldiretti denuncia che «le speculazioni e le distorsioni lungo la filiera allargano la forbice dei prezzi dal campo alla tavola». La situazione «sta diventando drammatica anche negli allevamenti. Ormai da giorni le quotazioni dei maiali nazionali destinati ai circuiti Dop sono scese al di sotto di 1,25 centesimi al chilo, che coprono appena i costi della razione alimentare degli animali». E i bovini da carne «oggi vengono pagati allo stesso prezzo che si riscontrava vent’anni fa».
La Stampa – 23 febbraio 2016