di Dario Di Vico. Il sesto posto nel Food Sustainability Index (Fsi) per l’Italia assomiglia a uno schiaffo. Siamo convinti di essere i leader mondiali dell’alimentazione gustosa/sana e invece la classifica elaborata dalla Fondazione Barilla in collaborazione con The Economist – e presentata ieri a Milano – ci delude clamorosamente.
In testa ci sono i cugini francesi seguiti dal Giappone e dal Canada: sono loro i più virtuosi nel produrre, distribuire e consumare il cibo. «Sono i Paesi – recita il comunicato ufficiale – dove l’agricoltura è più sostenibile, si spreca meno cibo e si mangia in modo più equilibrato, attenti alla propria salute e a quella del pianeta». La Francia deve il primato alle politiche innovative contro lo spreco e all’approccio equilibrato all’alimentazione. Giappone e Canada hanno conquistato il podio grazie alle scelte effettuate in materia di agricoltura sostenibile e di diffusione di regimi alimentari corretti. Per arrivare al sesto posto italiano dobbiamo passare per il quarto e quinto appannaggio di Germania e Regno Unito. Quasi una bestemmia per noi buongustai tricolori.
Ma quali sono i fattori che ci hanno condizionato? La nostra agricoltura è stata giudicata tra le più sostenibili e in particolare è stata lodata la riduzione delle emissioni di gas serra. Altro punto di merito l’approvazione di una legge per contrastare lo spreco di cibo. A zavorrare le chance italiane sono arrivati però i dati sulla nutrizione: siamo il terzo Paese per eccessiva alimentazione e al secondo posto per sovrappeso e obesità nella fascia tra i 2 e i 18 anni. La dieta mediterranea, celebrata in tutti gli angoli del pianeta, sembra essere sottostimata dagli stessi italiani, che non la seguono più con convinzione. Poca frutta, troppi fritti.
Stando così le cose la sfida per l’industria della trasformazione alimentare si fa quantomeno complessa. Guido Barilla, anima del Forum internazionale sull’alimentazione che ha promosso l’Indice e «operatore commerciale del settore» (definizione sua), crede che la strada giusta sia «mangiare meglio, mangiare meno, mangiare tutti».
Slogan che riprende vecchie parole d’ordine sindacali e propone una sorta di democrazia del cibo o, se preferite, una lotta alle disuguaglianze a cominciare dalla nutrizione. Non capita spesso che una multinazionale, come quella che Barilla dirige, collabori a pieno titolo con le Ong di tutto il mondo – largamente rappresentate ieri a Milano – e metta sotto accusa invece i governi che non sembrano aver compreso fino in fondo «i problemi drammatici del pianeta», perché adottano «politiche timide quando invece servirebbero regole severe e impattanti». Come la tassazione dell’impatto ambientale. Un avvocato difensore dei governi potrebbe obiettare che non tutte le multinazionali hanno la cultura dei Barilla, anzi le scelte più drastiche e le contraddizioni più evidenti (obesità giovanile) sono frutto di politiche commerciali spregiudicate e hanno quasi sempre un nome e un cognome.
Esaminando poi la questione dal punto di vista del Made in Italy la sfida appare sicuramente impegnativa e presenta anche qualche contraddizione. La nostra industria si sta dando obiettivi quantitativi come quelli rappresentati, ad esempio, dalla penetrazione dell’export nei Paesi emergenti e preme più sul tasto dell’eccellenza che su quello della sostenibilità. Per tenere insieme le due cose ci vuole un salto culturale.
Uno slogan come «mangiare meno, mangiare tutti» può spaventare chi è alla ricerca di nuovi fatturati per potersi dare in tempo utile una taglia da multinazionale. La quadratura del cerchio sta forse nella capacità del Made in Italy di offrire al consumatore globale non solo un prodotto dal gusto unico ma anche “un servizio” ovvero una cultura più ampia dell’alimentazione, trasparente e attenta alle condizioni di contesto (lo stato di salute del pianeta).
E’ un obiettivo largamente alla nostra portata specie se si riesce a saldare un’alleanza con il “nuovo consumatore”, che grazie al web possiede una mole di informazioni senza precedenti.
2 dicembre 2016 – Repubblica