A volte ritornano. La commissione Mercato interno del Parlamento europeo ha approvato il nuovo pacchetto legislativo per la sicurezza dei prodotti, ripristinando l’obbligo di indicare l’origine per le importazioni dai Paesi terzi e stabilendo le premesse perché essa sia controllabile e controllata.
E’ il cosiddetto dossier «Made In», per il quale da anni si batte l’Italia insieme con Spagna e Francia, contro Germania e i Paesi del Nord che invece non la vogliono. La forte lobby di quest’ultimi era riuscita a far decretare dalla Commissione esecutiva l’obsolescenza del progetto. La controffensiva di Roma e Parigi, nonché degli eurodeputati, è riuscita a far invertire la rotta. Si attende il «sì» dell’assemblea, poi si andrà in Consiglio. Il match sarà duro, ma può essere vinto.
L’effetto della decisione è chiaro. Una volta entrata in vigore la norma, tutti i prodotti non alimentari dovranno chiaramente indicare il luogo da dove arrivano. E’ un biglietto da visita importante per chi fa qualità ed è uno scudo per la contraffazione, tutela le imprese e protegge i consumatori. Oltre il 10% degli articoli pericolosi che ogni anno sono identificati da Rapex, l’agenza anticontraffazione, non ha origine accertabile. Immenso è il quantitativo di capi, nel tessile come nel pellame, che sembrano europei, o di qualità europea, e non lo sono.
Tutti soddisfatti i soci storici del «Cartelli del “Made In”». «Un voto che promuove la competitività delle imprese – commenta Antonio Tajani, il responsabile Ue per l’Industria che insieme con il collega Tonio Borg (Salute) ha scritto il provvedimento -. Sarebbe stato difficile spiegare ai cittadini che l’Europa è meno trasparente di Stati Uniti e Giappone o la stessa Cina riguardo alla tracciabilità dei prodotti». Per il ministro degli Affari europeo, Enzo Moavero, è un passo che «rafforza la tutela della consapevole scelta dei cittadini». «Dopo più di cinque anni, si ritorna a votare a favore del marchio di origine», sentenzia Cristiana Muscardini, vicepresidente della commissione Commercio.
Nel 2012, nonostante sette anni di lavori e lobby intensa, la Commissione Ue ha tolto il codice «made in» dal suo programma di lavoro. «Oltre alla mancanza di accordo in Consiglio – si spiegava a Bruxelles -, recenti sviluppi nell’interpretazione legale delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio hanno reso la proposta non attuale». Tajani e Borg l’hanno rimessa in cantiere, con l’appoggio di una parte dell’Europarlamento. Ieri il piano è passato con 27 voti a favore, 7 «no» e 5 astenuti (inclusi alcuni popolari tedeschi). Già, i tedeschi. Il governo federale ha preso una sonora sportellata, tradito anche dai socialdemocratici, tirati a bordo in nome della protezione dei cittadini. Non voleva l’etichetta per non frenare l’import cinese e asiatico in generale. A differenza delle emissioni CO2 dell’auto, Berlino non è riuscita a imporre gli interessi nazionali. L’Europa, stavolta, ha avuto la meglio.
La Stampa – 18 ottobre 2013