«Non è instaurando uno stato di polizia che si migliora il servizio pubblico», taglia corto Giuseppe Favretto, professore ordinario di Organizzazione Aziendale dell’Università di Verona. È una critica alla strategia annunciata dal governo Renzi? «In questi ultimi anni, dal ministro Brunetta in poi, la politica ha criticato aspramente i dipendenti pubblici. L’attuale governo, da questo punto di vista, non fa altro che procedere su questa strada».
È contrario all’inasprimento dei provvedimenti contro gli assenteisti?
«Sarò impopolare ma, fosse per me, farei l’esatto opposto: allargherei le maglie dei controlli. Gli studi dimostrano che nelle aziende in cui si vieta l’utilizzo dei social network le performance dei dipendenti non migliorano affatto. E questo per un motivo molto semplice: se una persona non ha intenzione di lavorare, non lo farà. Invece di perdere tempo su Facebook lo farà telefonando agli amici o giocherellando in ufficio, ma di sicuro non basta un divieto per aumentare la sua produttività. E lo stesso accade se si controllano le e-mail o se si limitano le pause ricreative. Diverse ricerche hanno sottolineato una correlazione tra la pausa-caffè e la miglior efficienza del lavoratore».
Quindi come conviene intervenire?
«Motivando l’impiegato pubblico e responsabilizzandolo. Fatto salvo, naturalmente, i comportamenti più gravi che vanno puniti severamente».
Ma attualmente solo in rarissimi casi si riesce a licenziare il dipendente pubblico…
«Questo per via del garantismo che impera, nel bene e nel male, sull’intero settore del pubblico impiego. E il giudice del lavoro, con le sue decisioni che spesso vengono incontro alle istanze del dipendente, non fa altro che rispecchiare questa tendenza».
Il dipendente pubblico è più tutelato rispetto a chi opera nel privato?
«Dal punto di vista strettamente giuridico valgono le stesse regole. Ma nella realtà c’è una differenze sostanziale e riguarda il modello organizzativo. Mentre nelle aziende il dipendente viene valutato sulla base di un “insindacabile giudizio” del suo superiore, lo Stato ha dovuto “burocratizzare” anche il sistema con il quale i propri dirigenti giudicano la produttività dei sottoposti. Per farlo ha dovuto individuare, all’interno della giornata lavorativa, dei fattori ben misurabili e che possano valere per tutti i dipendenti. Per questo motivo, il principale criterio per gli avanzamenti di carriera nella pubblica amministrazione non è la produttività ma l’anzianità».
Non sembra molto meritocratico…
«La meritocrazia, per come si applica nel concreto della nostra quotidianità, è una chimera. Anche nelle imprese private le promozioni avvengono per i motivi più disparati: perché si è più bravi ma anche perché si gioca a golf con il capo… Sotto questo profilo, il sistema della pubblica amministrazione è più garantista: qui, al contrario del settore privato, le simpatie o le antipatie personali influenzano ben poco il percorso lavorativo del dipendente».
IL Corriere del Veneto – 19 gennaio 2016