Dipendente Telecom mandò più di tredicimila sms dal cellulare d’ufficio ma non sarà licenziato. Il provvedimento, dice la Cassazione, sarebbe eccesivo.
La sezione Lavoro, bocciando il ricorso della Telecom, ricorda inoltre che la legge Fornero introdotta con la legge 92 del 2012 non è «immediatamente applicabile» ai procedimenti in corso. Il caso analizzato dalla Suprema Corte riguarda un dipendente Telecom, Giacomo L. che il 28 luglio 2001 si era visto licenziare dall’azienda per i messaggini privati inviati con il telefonino dell’ufficio: gli sms – registra la sentenza 10550 – erano stati 13.404 per un costo di oltre tre milioni di vecchie lire. Va detto, come annota ancora la Suprema Corte, che il dipendente si era sempre reso disponibile a rimborsare le telefonate fatte e che la Telecom, hanno sempre fatto notare i giudici dei precedenti gradi di giudizio, avrebbe avuto modo di controllare le telefonate private del dipendente. Da qui la reintegra del lavoratore come già aveva disposto la Corte d’appello di Napoli, nel 2010, evidenziando che «si era trattato di comportamenti senza raggiri» data la facile verificabilità degli invii per l’azienda.
Inutile il ricorso della Telecom in Cassazione che, fra l’altro, si è appellata alla legge Fornero sui licenziamenti. Piazza Cavour ha respinto la tesi difensiva e ha evidenziato che «per quel che riguarda la dedotta applicabilità di nuova disciplina introdotta dalla legge Fornero, sul rilievo che, in mancanza di disposizione transitoria, il nuovo testo dell’art. 18 sarebbe immediatamente applicabile, la Corte non condivide la ricostruzione operata». Piazza Cavour spiega infatti che «con la legge n. 92 è stata introdotta una nuova e complessa disciplina dei licenziamenti che a’ncora le sanzioni irrogabili per effetto della accertata illegittimità del recesso a valutazione di fatto incompatibili non solo con il giudizio di legittimità ma anche con una eventuale rimessione al giudice di merito che dovrà applicare uno dei possibili sistemi sanzianatori conseguenti a qualificazioni del fatto». Un diverso ragionamento, dice ancora la Cassazione, sarebbe in contrasto sia con i principi sanciti dalla Carta Costituzionale che dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
La Stampa – 9 maggio 2013