Al momento in cui si scrive, il condizionale è d’obbligo: di certo c’è soltanto il miliardo di aumento del Fondo sanitario nazionale, al lordo del contributo alla Finanza pubblica da 604 milioni di euro, che le Regioni a statuto ordinario sono chiamate a versare per quest’anno, al posto delle “speciali”. L’incremento netto si tradurrebbe quindi in briciole, rispetto alle richieste. Le stime degli incrementi necessari sarebbero ben altre: almeno 600 milioni per portare a casa entro la Legislatura la nuova Convenzione per la Medicina generale e il contratto del comparto. Più altri 150-200 milioni per riavviare le assunzioni nelle Regioni più in sofferenza. In questa lista, già impegnativa, si dovrebbero poi aggiungere altri 180 milioni di euro per far fronte al rinnovo contrattuale della dirigenza medica. Che già si trova disallineata rispetto alle altre aree, in attesa com’è del varo da parte del Comitato di settore dell’Atto d’indirizzo, ancora al vaglio del Mef. Sotto la lente dei tecnici dell’Economia, la salvaguardia della Ria (retribuzione individuale di anzianità), l’inserimento dell’indennità di esclusività nel monte salari e la copertura assicurativa del medico, alla luce di quanto previsto dalla legge Gelli sulla responsabilità professionale e il rischio clinico.
Urgenze che rientrano nel pacchetto di richieste presentato dai sindacati in maniera unitaria fin da settembre, ma che difficilmente saranno soddisfatte, nonostante il clima pre elettorale, che farà della prossima legge di Bilancio, nel complesso, una manovra “espansiva”. Certo, nei limiti del possibile. Per il Fondo sanitario nazionale 2018 la coperta rischia di confermarsi corta, malgrado l’impegno dichiarato di Beatrice Lorenzin. Un recupero di risorse più che sufficiente potrebbe arrivare con i 750 milioni che si otterrebbero dal “centesimo a sigaretta” proposto a più riprese dalla stessa ministra e condiviso anche dalle Regioni. Misura impopolare, però, che metterebbe a serio rischio il voto dei fumatori.
Quadratura del cerchio da trovare anche per le richieste di abrogazione del superticket – introdotto nel 2011 come provvedimento transitorio ma poi diventato una tassa strutturale a carico dei cittadini (900 milioni di euro l’introito per le casse pubbliche) – che devono fare i conti con la caccia a eventuali coperture. Il punto di vista originario, avallato dalla maggioranza parlamentare, è quello di un’abolizione graduale del “balzello”, ma andrebbe garantito alle Regioni un recupero di gettito su altri capitoli. È possibile che la soluzione si trovi in sede di proposte emendative al Ddl di Bilancio. Che dopo due anni di avvio dell’iter alla Camera, dovrebbe essere incardinato al Senato. Dove non mancano i caldeggiatori dell’abrogazione – sostenuta fin dalla prima ora dal gruppo Mdp-Articolo 1 – anche per step successivi a partire da metà 2018.
Strategica e quindi non più rinviabile dovrebbe essere la scommessa edilizia sanitaria, che però va capita nell’ambito del complessivo quadro “dare-avere” tra Regioni e Governo. «Rischia di saltare anche questo tavolo, se le Regioni ci devono mettere 2,7 miliardi di tasca loro», avvisava una manciata di giorni fa il coordinatore degli assessori alle Finanze, Massimo Garavaglia.
E la governance della spesa farmaceutica? Fortemente attesa e ritenuta necessaria da tutti gli stakeholder, resta ancora indefinita nei contorni. I confronti sono in corso ma si è ben lontani da una ricetta condivisa. Sullo sfondo incombe la tempesta del deficit della spesa farmaceutica diretta, con 3 miliardi di disavanzo, da suddividere tra bilanci regionali e industria. Una spada di Damocle che rende improrogabile la ricerca di una soluzione che renda sostenibili le cure in corsia.
Il Sole 24 Ore sanità – 15 ottobre 2017