Alessandro Barbera. La questione ha un certo impatto politico, ed è sufficiente a scatenare i primi vagiti della campagna elettorale. Nel 2014, anno primo dell’era Renzi, la pressione fiscale è aumentata o diminuita? I calcoli dell’Istat dicono che è persino aumentata: il 43,5 per cento del prodotto interno lordo, un decimale in più del 2013. Possibile? Che fine hanno fatto gli sbandierati diciotto miliardi di tagli fiscali, gli sgravi per chi assume, l’aiuto ai redditi più bassi?
Primo: è vero che il governo ha dato ossigeno alle famiglie deboli, ma ha chiesto di più ad altri, come chi possiede rendite finanziarie. Secondo: l’Istat, tenuta a rispettare le regole contabili di Eurostat, ha calcolato il bonus 80 euro (dieci miliardi in tutto) per quello che in effetti, formalmente, è: un trasferimento a favore dei lavoratori dipendenti, ovvero maggiore spesa. Quando il premier, con i suoi consiglieri, decise di trattarlo come tale fu avvertito delle conseguenze; ma fra la soluzione che avrebbe permesso di rendere visibile la voce «bonus fiscale» nelle buste paga dei dipendenti e un meno visibile aumento del reddito indotto da un calo delle tasse non ebbe dubbi su quale preferire.
Il conto economico trimestrale dell’Istat ci dice anche dell’altro, ad esempio che la quota di profitti delle imprese non finanziarie (40,6 per cento) è scesa ai minimi da quando è rilevato il dato, ovvero dal lontano 1995. Sempre nel 2014 il reddito delle famiglie è tornato a crescere (dello 0,2 per cento) dopo il -0,6 per cento di un anno prima. Tenuto conto dell’inflazione, il potere d’acquisto è però rimasto invariato. L’aumento dei consumi è stato superiore a quello del reddito (+0,5 per cento), segno che è lievemente aumentato l’ottimismo sul futuro. Se il metro è l’andamento dei conti pubblici, c’è qualche motivo di sperare. Dopo aver camminato sul ciglio del baratro a fine 2011, quando il Tesoro pagava più del 6 per cento di interessi sui Btp, ora l’Istat spiega che nel solo quarto trimestre dell’anno appena trascorso la spesa per onorare il debito pubblico italiano è scesa del 4,6 per cento, un miliardo in meno del 2013. Se le cose continueranno così, alla fine di quest’anno i risparmi avranno superato i quattro miliardi. Non poco per un governo alla caccia disperata di risorse senza provocare nuovo deficit. Il problema irrisolto è sempre la crescita: nel prossimo documento di economia e finanza è prevista nel 2015 allo 0,7-0,8 per cento, troppo poco per far risalire in maniera significativa l’occupazione. «L’Italia è il cuore della questione dell’euro», scrive il Wall Street Journal. Atene è il «canarino nella miniera», Roma «l’elefante nella stanza». Se la crisi della Grecia è acuta, «allora l’Italia ne ha una forma cronica: dal suo ingresso nell’euro è cresciuta pochissimo». Gli sforzi di Renzi per riformare il Paese «sono vitali e meritano credito» eppure – scrivono – non sono stati ancora sufficienti. Le orecchie sensibili alle sirene omeriche prendano nota.
La Stampa – 3 aprile 2015