Nel Ddl Madia gli organismi esponenziali delle professioni ricondotti tra le pubbliche amministrazioni. Troppo semplicistico parlare degli Ordini come di una delle realtà della pubblica amministrazione, secondo la definizione del Ddl Madia, il 1577 in discussione alla commissione Affari costituzionali del Senato. Certo, alla domanda «che cos’è un Ordine professionale» si potrebbe certamente rispondere «è una pubblica amministrazione», ma non si renderebbe conto di tutte le peculiarità, con conseguenze rispetto al controllo sui bilanci (come avrebbe voluto la Corte dei conti) o sulla trasparenza secondo la legge anticorruzione. Ecco perché il Ddl Madia potrebbe diventare l’occasione per mettere nero su bianco una definizione organica degli Ordini. Il dibattito sulla natura degli Ordini è aperto. I vertici dei Consigli nazionali assistono «con rispetto» ai lavori del Parlamento. Però mettono in chiaro presupposti e conseguenze della decisione.
Secondo un emendamento presentato da Maurizio Sacconi e Andrea Augello, gli Ordini dovrebbero essere qualificati come «enti pubblici non economici a carattere associativo competenti per la cura dell’interesse pubblico al corretto svolgimento di una professione. Gli Ordini professionali sono dotati di autonomia patrimoniale e finanziaria, sono finanziati esclusivamente con i contributi degli iscritti, determinano la propria organizzazione con appositi regolamenti, nel rispetto delle disposizioni di legge, e sono soggetti esclusivamente alla vigilanza del ministro competente». Una definizione simile è adottata anche nella proposta Mandelli, D’Ambrosio, Lettieri.
Alternativa, invece, è la classificazione suggerita da Linda Lanzillotta, Alessandro Maran e Pietro Ichino: gli Ordini sono «organismi privati di interesse pubblico», tra cui sono annoverati, per esempio, i gestori di servizi pubblici e le società a partecipazione pubblica che operano in regime di concorrenza.
Dunque, il dibattito sulla natura degli Ordini è aperto. I vertici dei Consigli nazionali assistono «con rispetto» ai lavori del Parlamento. Però mettono in chiaro presupposti e conseguenze della decisione. «Svolgiamo una funzione di interesse generale per il Paese – sottolinea Davide Di Russo, vice presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti –. Se accettiamo questo ruolo, la nostra natura non può che essere pubblica».
«Il punto di partenza – chiarisce Giuseppe Celeste del Consiglio nazionale del Notariato – è che ci sono beni e diritti di interesse costituzionale da tutelare e un ente pubblico può adottare provvedimenti in grado di garantirne il rispetto».
Marina Calderone, presidente del Cup – il Comitato unitario che riunisce gran parte degli Ordini (con l’eccezione dei “tecnici”) – rileva che la definizione degli Ordini «quali enti pubblici non economici a carattere associativo rispecchia la nostra identità così come ricostruita nel parere pro veritate reso dal professor Piero Alberto Capotosti per contestare l’applicabilità della legge anticorruzione. Abbiamo potestà pubblicistiche per la cura della fede e degli interessi pubblici, ma nello stesso tempo non rientriamo nell’ambito della finanza pubblica in quanto le risorse derivano dalle quote dei nostri iscritti». Capotosti, nel parere, ha definito «bivalente» il carattere degli Ordini professionali, «enti pubblici associativi». Essi, infatti, sono «capaci di adottare atti incidenti in via autoritativa sulla sfera giuridica altrui … però continuano a essere conformati come enti esponenziali di ciascuna delle categorie professionali interessate». Capostosti arriva a questa conclusione sulla base di una ricognizione storico, legislativa e giuridica che parte dal decreto legislativo 165/2001 (sulle pubbliche amministrazioni) e si focalizza sulla sentenza di Cassazione 21226/2011 (che ha sottratto gli Ordini al preteso controllo della Corte dei conti poiché gli enti beneficiano di finanziamenti privati), fino ad arrivare alla giurisprudenza della Corte Ue (causa C-526/11, secondo cui gli Ordini non sono soggetti alle regole sugli appalti pubblici, poiché non beneficiano di un finanziamento maggioritario da parte dell’autorità pubblica», né soddisfano «il criterio relativo al controllo della gestione da parte dell’autorità pubblica»). Anche la disciplina del lavoro pubblico, da cui si vorrebbero trarre conseguenze circa la natura degli Ordini, in base al Dl 101/2013 determina a loro carico «solo» l’onere di adeguarsi ai principi del pubblico impiego. Dunque, la legge – conclude Capotosti – chiarisce che gli Ordini sono amministrazioni pubbliche particolari, enti associativi che «svolgono i loro compiti in regime di autogoverno».
Il Sole 24 Ore – 5 novembre 2014