Se il dipendente o l’amministratore pubblico commettono un reato contro l’amministrazione, che ha risalto nell’opinione pubblica, si può configurare un danno all’immagine nei confronti dell’ente di appartenenza che il dipendente è tenuto a risarcire. E questo il principio affermato dalla sentenza 395 del 28 aprile scorso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Lazio. Questa pronuncia segue altre decisioni analoghe depositate dai giudici erariali: che sempre più spesso riconoscono il risarcimento del danno all’immagine causato alla pubblica amministrazione dal dipendente “infedele”. Il caso esaminato dalla Corte dei conti del Lazio riguarda un funzionario dell’agenzia delle Entrate, condannato al risarcimento per danno all’immagine della Pa perché aveva promesso a un contribuente di non iniziare nei suoi confronti una verifica fiscale in cambio di ingenti somme di denaro.
Le caratteristiche
Nel giudizio di responsabilità erariale, l’entità del danno all’immagine derivante dalla commissione di un reato contro la Pa, accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente. Il danno all’immagine è considerato un danno “pubblico” perché lede il principio del buon andamento della Pa, che, a seguito dei comportamenti illeciti dei dipendenti, perde credibilità e affidabilità nei confronti della collettività. Tale danno, in pratica, deriva dalla possibile convinzione che i comportamenti illeciti del dipendente pubblico costituiscano una caratteristica abituale dell’azione dell’amministrazione. La responsabilità erariale in queste ipotesi sussiste però se si verificano determinati presupposti.
In primo luogo, la condotta illecita del dipendente pubblico deve rilevare anche ai fini penali e la sentenza di condanna deve essere passata in giudicato. Alla sentenza di condanna è equiparata quella di patteggiamento, perché comporta un’ammissione di responsabilità.
Il secondo elemento poi è la diffusione mediatica della vicenda.
Se il dipendente o l’amministratore pubblico commettono un reato contro l’amministrazione, che ha risalto nell’opinione pubblica, si può configurare un danno all’immagine nei confronti dell’ente di appartenenza che il dipendente è tenuto a risarcire. È questo il principio affermato dalla sentenza 395 del 28 aprile scorso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Lazio. Questa pronuncia segue altre decisioni analoghe depositate dai giudici erariali: che sempre più spesso riconoscono il risarcimento del danno all’immagine causato alla pubblica amministrazione dal dipendente “infedele”.
Il caso esaminato dalla Corte dei conti del Lazio riguarda un funzionario dell’agenzia delle Entrate, condannato al risarcimento per danno all’immagine della Pa perché aveva promesso a un contribuente di non iniziare nei suoi confronti una verifica fiscale in cambio di ingenti somme di denaro. In sostanza, il comportamento illegittimo da solo non comporta questo tipo di danno erariale: è necessario che la collettività venga a conoscenza del fatto e che questo sia in grado di ingenerare un sentimento di sfiducia nei confronti dell’amministrazione. Dunque, la figura del dipendente deve, per l’opinione pubblica, sovrapporsi e fondersi con quella dell’ente, cosicché il discredito del primo riguarda anche il secondo.
La misura del pregiudizio
Inoltre, la lesione deve avere un determinato grado di offensività: al di sotto di una certa soglia di pregiudizio non si configura alcuna responsabilità erariale. Senza il rispetto di tale parametro verrebbero infatti puniti semplici violazioni di doveri di servizio, alle quali non corrisponde un effettivo danno patrimoniale risarcibile.
La lesione dell’immagine, quindi, deve rilevare come riflesso negativo del comportamento del soggetto incardinato nella struttura della Pa che deteriora e offusca l’immagine dell’amministrazione pubblica la quale, per definizione, deve possedere, diffondere e difendere valori di onestà, correttezza, trasparenza, legalità e affidabilità. Esso deve essere capace di deteriorare il rapporto di fiducia tra la cittadinanza e l’istituzione pubblica a tal punto da realizzare un vero e proprio «danno sociale» (come ha affermato la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Veneto, con la sentenza 25/2014).
In merito alla quantificazione del danno i giudici hanno applicato, in passato, un criterio equitativo. Dopo l’entrata in vigore dell’articolo 1, comma 62, della legge anticorruzione (la 190/2012), il danno all’immagine deve essere commisurato dai giudici contabili al vantaggio economico che la persona ha conseguito per mezzo dell’illecita condotta (si veda anche l’articolo pubblicato a fianco). Peraltro, secondo la pronuncia 57/2013 della Corte dei conti, sezione Emilia-Romagna, il legislatore, proprio con la novità introdotta dalla legge 190/2012, ha inteso circoscrivere ulteriormente la tipologia di illeciti da cui può scaturire un danno all’immagine, fissando il principio che, solo laddove il dipendente abbia illecitamente «percepito» una somma di danaro o altra utilità sia possibile ipotizzare la sussistenza di un danno all’immagine.
Anticorruzione, stretta sulle norme
La normativa del danno all’immagine della pubblica amministrazione è diventata più stringente nel corso degli anni. In origine, l’articolo 17, comma 30-ter, del decreto legge 78/2009 ha previsto quale condizione necessaria perché si configuri questo danno un reato commesso da un pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione. Si tratta dei reati previsti dal Codice penale, al libro II, titolo II, capo I: in buona sostanza, peculato, rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio, corruzione, concussione, abuso d’ufficio.
Il quadro normativo è poi cambiato con la legge anticorruzione 190/ 2012, che, con l’articolo 1, comma 62, ha introdotto il comma 1-sexies all’articolo 1 della legge 20/94. Questa disposizione, per quantificare il danno all’immagine della Pa, fa riferimento a qualsiasi reato contro la pubblica amministrazione. Di conseguenza, anche se non l’ha previsto espressamente, la legge anticorruzione ha ampliato il campo di azione dei giudici contabili, permettendo di agire per pregiudizi non patrimoniali scaturiti dalla commissione di un qualsiasi «reato contro la pubblica amministrazione», nozione più ampia di quella dei «delitti dei pubblici ufficiali contro la Pa» prevista in precedenza (come hanno chiarito la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Lombardia, con la sentenza 47/2014, e la sezione girisdizionale per la Campania con l’ordinanza 187/2013).
Rispetto alla norma del 2009, la legge anticorruzione non fa più riferimento al Codice penale, né ad altre leggi o regolamenti; non indica eventuali presupposti o particolari requisiti che il danno all’immagine deve avere. Resta solo che esso, per essere risarcibile secondo l’entità prevista, deve derivare dalla commissione di un qualunque reato contro la Pa accertato con sentenza passata in giudicato. Va da sé che l’autore del reato deve essere incardinato nella struttura della Pa, sia pure con un rapporto di servizio anche occasionale.
Inoltre, rispetto al passato, la norma introdotta nel 2012 non menziona più la necessità di una «sentenza di condanna», ma solamente di una «sentenza passata in giudicato». È quindi ora sufficiente una pronuncia del giudice penale in cui venga accertata la commissione di un qualunque reato contro la Pa; così, è inclusa anche la sentenza di patteggiamento.
Per quanto concerne la quantificazione del danno all’immagine, l’articolo 1, comma 62, della legge 190/2012, ha previsto che l’entità del risarcimento si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente. Il dipendente pubblico convenuto nel giudizio erariale, ha quindi anche l’onere di contestare la somma chiesta dal pubblico ministero, dimostrando che è eccessiva.
Dato che le norme contenute nella legge anticorruzione sono decisamente più stringenti rispetto al passato, si è posto il problema della loro applicazione anche a illeciti già commessi e oggetto di procedimenti in corso; ci si è chiesti, cioè, se queste disposizioni abbiano natura sostanziale o processuale. A oggi la giurisprudenza della Corte dei conti non è uniforme. Ma nelle sentenze più recenti sembra prevalere la tesi della natura processuale delle innovazioni contenute nella legge anticorruzione, con la conseguenza che le nuove norme troverebbero applicazione anche ai fatti commessi prima della loro entrata in vigore.
Il Sole 24 Ore – 2 giugno 2014