Sulle pensioni il Governo s’impegnerà a reperire più risorse. All’annuncio di martedì del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con riferimento esplicito alle pensioni più basse da rafforzare e lo scalino «troppo grosso» della riforma Fornero, non sono seguite cifre ufficiali né ufficiose. Il dossier, come noto, non è ancora chiuso e lo sarà solo dopo i tavoli tecnici e politici già fissati con i sindacati il 7 e il 12 settembre prossimi. Ieri però le agenzie di stampa hanno rilanciato alcune stime di spesa per le singole misure allo studio che produrrebbero un costo complessivo variabile tra i 3 e i 4 miliardi a regime, ovvero al lordo degli effetti fiscali e da leggere in termini cumulati nei primi dieci anni di applicazione. Siamo oltre la cifra di 1,5-2 miliardi ipotizzata finora e oltre anche le richieste dei sindacati per una dote rafforzata attorno ai 2,5 miliardi (Uil). Partiamo dagli interventi per garantire al sistema una maggiore flessibilità in uscita.
L’Ape, ovvero l’anticipo pensionistico con prestito bancario assicurato e rimborsabile in 20 anni, costerebbe attorno ai 600 milioni di euro, una spesa destinata soprattutto a coprire le detrazioni previste per le categorie più svantaggiate, come i disoccupati di lungo corso, mentre 50 milioni servirebbero per finanziare la sua gestione operativa, affidata all’Inps. Quest’ultima voce di spesa potrebbe essere attivata con un decreto legge entro settembre. Un altro canale che, se attivato, garantirebbe un buon flusso di anticipi pensionistici (70-80mila lavoratori l’anno) è quello delle ricongiunzioni gratuite dei versamenti effettuati in gestioni diverse: costerebbe a regime 500 milioni, cifra che include anche il riscatto della laurea (senza la spesa scenderebbe a 440 milioni). Nel primo anno di attivazione il costo sarebbe di 87 milioni (circa 50 senza riscatto laurea). Si modificherebbe, con questo intervento, il quadro regolatorio fissato dalla legge 228/2012 (commi 239 e successivi) ma dal nuovo meccanismo sarebbero escluse le casse dei professionisti.
Restano poi i due canali di uscita facilitata per precoci (chi ha lavorato prima dei 18 anni) e lavoratori impegnati in attività usuranti. Il primo intervento è quello potenzialmente più oneroso. Uno scivolo al pensionamento per i lavoratori precoci avrebbe costi che oscillano tra 1,2 e 1,8 miliardi a regime (dopo i primi 10 anni). Il riconoscimento di un bonus di quattro mesi per ogni anno di contribuzione prima dei 18 anni di età avrebbe un valore tra 1,5 e 1,8 miliardi, sempre a regime. Riducendo il bonus a tre mesi si andrebbe da 1,2 a 1,4 miliardi. Sarebbe di 60-67mila la platea annua degli interessati. Ma in questo caso la platea potrebbe essere molto ridimensionata se, per esempio, si decidesse un limite minimo di 104 settimane (due anni) di versamenti prima dei 18 anni per essere riconosciuto tra i beneficiari del bonus. In questo caso la spesa scenderebbe molto. Favorire il pensionamento di chi ha svolto attività particolarmente faticose determinerebbe una spesa di 72 milioni a regime (20 milioni il primo anno), nell’ipotesi che fa leva sull’adeguamento alla speranza di vita. La cifra si alza se si estende l’agevolazione ad altre categorie (220 milioni se si includono gli operai edili). Dunque anche in questo caso la variabilità delle stime è molto ampia. Infine le misure per dare più risorse ai pensionati più poveri. Raddoppiare la platea dei benefciari della 14esima mensilità (da 1,2 a 2,4 milioni di pensionati)costerebbe 800-900 milioni. La maggiorazione sarebbe graduata, come già accade attualmente, sui contributi (336 euro se sotto i 10 anni, 425 fino ai 20 anni e 506 oltre i 25 anni di versamenti). L’allargamento del bacino si otterrebbe alzando l’assegno su cui caricare la 14esima (oggi è 750 euro mensili). Meno onerosa la scelta di allineare la no tax area dei pensionati a quella valida per i dipendenti: costerebbe 260 milioni l’anno. Mentre sarebbe assai più alta la spesa per portare tutte le detrazioni allo stesso livello (1,9 miliardi).
Alla luce di queste stime, circolate nei tavoli tecnici delle ultime settimane e suscettibili di ulteriori correzioni, hanno fatto seguito alcune reazioni sindacali. «O il Governo fa uno sforzo o noi decideremo cosa fare, certamente siamo pronti alla mobilitazione», avverte il segretario generale dello Spi Cgil, Ivan Pedretti. Dalla Cgil nazionale, il coordinatore dell’area della contrattazione sociale Nicola Marongiu, spiega come «la cifra ragionevole su cui poter lavorare è tra i 2 e i 3 miliardi». Fiduciosa la Uil: il segretario confederale Domenico Proietti assicura che il sindacato «continuerà a lavorare con determinazione per chiudere positivamente questo capitolo importante per il nostro Paese».
PENSIONI, CACCIA ALL’«EQUILIBRIO»
Anticipo pensionistico, semplificazioni per lavoratori impegnati in attività usuranti e per quelli che hanno iniziato prima dei diciotto anni, nuove regole per valorizzare senza costo i contributi accumulati in gestioni differenti sono gli strumenti a cui sta lavorando il governo e che dovrebbero approdare nella prossima legge di Stabilità per rendere più flessibile il sistema previdenziale dopo la riforma del 2011.
Si tratta di trovare un difficile equilibrio tra allentamento dei requisiti, relativi costi (determinati dal fatto che vengono versati meno contributi e ci sono più pensioni da pagare) e una stima attendibile delle persone che utilizzeranno queste vie d’uscita per determinare gli oneri complessivi dell’operazione.
A questo proposito, ieri, l’Inps ha diffuso l’aggiornamento dei sette provvedimenti di salvaguardia attuati per consentire di andare in pensione con i vecchi requisiti ai lavoratori troppo penalizzati dalle regole introdotte dal governo Monti. Su 172.466 posti complessivamente disponibili, sono state accolte 128.079 domande (i termini per l’invio sono tutti scaduti) mentre altre 1.949 sono giacenti e 54.509 sono state respinte. L’operazione di valutazione delle richieste, quindi, è alla fase conclusiva e sommando le domande accolte e quelle giacenti si arriva a quota 130.028. Di conseguenza resteranno inutilizzati 42.438 posti.
La buona notizia è che l’operazione costerà meno degli 11,4 miliardi previsti e i risparmi potrebbero essere utilizzati per ulteriori interventi volti a incrementare la flessibilità del sistema previdenziale. Il dato che fa riflettere, invece, è che il 24% dei posti stimati come necessari rimane inutilizzato. Difficile pensare che i requisiti siano troppo stretti, dato che sono stati “allentati” più volte nel corso del tempo. Molto più probabile che siano state sbagliate le stime iniziali.
Una situazione più estrema si è verificata nell’ultimo quinquennio con le regole in vigore per i lavoratori impegnati in attività usuranti. Rispetto a una platea stimata in 10-11mila persone all’anno che, sommando età anagrafica e anni di contributi versati, avrebbero potuto accedere alla pensione in anticipo rispetto al trattamento di vecchiaia, la media è stata di 2.500-3.000 richieste accolte, anche perché?i paletti che accompagnano i requisiti anagrafico-contributivi sono particolarmente rigidi. Anche in questo caso il relativo budget, che serve per coprire la mancata contribuzione e gli anni di pensione aggiuntivi rispetto allo standard, è rimasto ampiamente inutilizzato, tant’è che poi è stato ridotto e le risorse dirottate altrove.
Anche l’avvio dell’ultima forma di flessibilità sembra non essere entusiasmante. Con la legge di Stabilità 2016 è stato introdotto il part time agevolato in base al quale i dipendenti del settore privato che maturano il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia entro il 2018, possono ridurre l’orario, d’accordo con il datore di lavoro, del 40-60 per cento. L’assegno mensile, però, non si riduce in misura uguale perché?il dipendente incassa, esentasse, la quota di contributi per le ore non lavorate che l’azienda dovrebbe versare all’Inps. Inoltre beneficia della contribuzione figurativa. A fronte di una copertura finanziaria di 240 milioni per il triennio 2016-2018, ci si aspetta che l’opzione sia utilizzata da 30mila persone. Nel primo mese di applicazione, però, l’Inps lo ha concesso a poco più di 100 persone.
Gli interventi sul sistema previdenziale devono bilanciare i vantaggi per i pensionandi e salvaguardare al contempo l’equilibrio dei conti. Per soddisfare il secondo requisito, l’anticipo pensionistico (Ape) prevede l’erogazione di un prestito a carico del pensionando, in modo da non incidere troppo sul bilancio dello Stato. La prospettiva di smettere di lavorare 3 anni e 7 mesi prima di quanto richiesto per accedere alla pensione di vecchiaia è sicuramente allettante, ma il costo a carico dell’interessato potrebbe costituire un freno. Tuttavia l’ “opzione donna” sembra rimescolare le carte:?pur di andare in pensione con un anticipo medio di 5-6 anni, oltre 64mila lavoratrici hanno accettato una decurtazione dell’assegno nell’ordine del 35 per cento.
Davide Colombo e Matteo Prioschi – Il Sole 24 Ore – 11 agosto 2016