Il governo corregge due decreti su tre bocciati in parte dalla Corte Costituzionale con la sentenza 251 del 25 novembre scorso: quello che taglia le società pubbliche partecipate e l’altro che impone una stretta sui furbetti del cartellino. Ma lascia fuori per ora il provvedimento più scivoloso sui dirigenti sanitari, vero casus belli del ricorso alla Consulta promosso dalla regione Veneto. Il motivo ufficiale è l’assenza dal Consiglio dei ministri di ieri del ministro della Sanità Lorenzin, competente solo per materia, dato che i tre testi sono parte integrante della riforma Madia della pubblica amministrazione.
In realtà, al governo occorre tempo per evitare di incappare in un altro incidente con le Regioni, proprio ora che occorre l’intesa unanime dei governatori, non il mero parere consultivo acquisito in precedenza e poi bollato come insufficiente dalla Consulta, «nel rispetto del principio di leale collaborazione» su temi di competenza concorrente tra centro e periferia. E di focolai per nuovi attriti ce ne sono almeno un paio. La soglia di fatturato al di sotto della quale scatta automatica la soppressione delle società partecipate dagli enti locali è rimasta intatta, ancorata ad un milione di euro. Le Regioni chiedono di dimezzarla. E la procedura di nomina dei direttori generali di Asl e ospedali resta ancora appesa alla terna tratta dall’albo nazionale. Un modo, secondo i governatori, in primis Luca Zaia del Veneto, per decidere a Roma i manager della sanità locale.
Il governo proverà a ricomporre gli screzi giovedì, alla prima conferenza Stato-Regioni utile. In quella sede potrebbe già chiedere l’intesa sui due decreti ritoccati ieri in Cdm. Ma certo si dovrà parlare anche dei dirigenti sanitari, il cui testo per ora è sospeso. Sul tavolo una proposta esiste e metterebbe d’accordo tutti i governatori: abolire la terna e cambiare i requisiti per entrare nell’albo, pesando di più l’esperienza manageriale (70%) che le pubblicazioni (30%), anziché darli alla pari. Requisiti che il Veneto vorrebbe cancellare del tutto, lasciando solo un albo di dirigenti abilitati. Ma il punto non sembra ostacolare l’accordo finale.
Le novità introdotte su partecipate e furbetti, rispetto ai rispettivi provvedimenti già in vigore da mesi (e i cui effetti di legge, ha chiarito il Consiglio di Stato, restano salvi nonostante la bocciatura della Consulta, quindi non sarà possibile impugnare eventuali licenziamenti su questa base) sono davvero minimali. In particolare, le amministrazioni locali avranno tre mesi in più, fino a giugno, per stilare i piani di tagli delle società partecipate (l’obiettivo generale è di scendere da circa 8 mila a mille). I governatori potranno decidere quali società regionali escludere dalla mannaia (i sindaci no). Ed eviteranno pure la sanzione fino a 500 mila euro, se non presenteranno il piano annuale di razionalizzazione. Resa più morbida anche la norma sull’amministratore unico nelle partecipate dello Stato: sarà l’assemblea a decidere, non un decreto del governo.
Repubblica – 18 febbraio 2017