
«Pensioni a rischio con lo stop a 66,7 anni». La Ragioneria: bloccare adeguamento a speranza di vita taglia gli assegni futuri del 12,8%
La Ragioneria generale dello Stato ha confermato ieri, con la pubblicazione della versione integrale del report annuale sull’andamento della spesa pensionistica e socio-assistenziale, un peggioramento dei tendenziali rispetto al Def 2017. Nello scenario nazionale base (crescita del Pil dell’1,2% nelle medie di lungo periodo) la curva della spesa per pensioni rapportata al prodotto interno assume una traiettoria più elevata di 0,7 punti attorno al 2040 e di 0,1 alla fine del periodo di previsione, nel 2070. Gli effetti cumulati sul debito pubblico in rapporto al Pil sono di 8,9 punti nel 2040 e di 32,6 a fine periodo. Secondo le nuove proiezioni la spesa per pensioni arriverebbe al 15,4-15,5% tra una dozzina d’anni per poi salire al 16,3% nel 2044. La discesa scatterebbe un decennio dopo per fermarsi attorno al 13.1% nel 2070 (12,8% nelle precedenti stime). Uno scenario peggiore, offerto dal Comitato di politica economica dell’Ecofin e basato su una stima di Pil potenziale dello 0,7% (contro l’1,4% della precedente edizione) vede una lievitazione della spesa del 2% nel 2034.
Si tratta degli stessi numeri contenuti nell’anticipazione diffusa in giugno, insieme con gli scenari sui nuovi requisiti di pensionamento anticipato o di vecchiaia aumentati in virtù dell’applicazione degli adeguamenti automatici alla speranza di vita a 65 anni e che vedrebbero un anticipo al 2019 del requisito di vecchiaia a 67 anni, cinque mesi in più rispetto agli attuali 66 anni e 7 mesi. Per confermare quel nuovo limite di età (e lo stesso vale per i nuovi limiti di contribuzione) serve un decreto direttoriale Mef-Lavoro da adottare entro l’autunno sulla base della nota Istat aggiornata sulle tendenze demografica. Ma questo passaggio ha visto crescere nelle ultime settimane un’opposizione sindacale e politica con cui il governo dovrà ora fare i conti.
Nel report Rgs si affronta di petto la questione in un box che analizza gli effetti dei due stabilizzatori automatici della spesa pensionistica: i coefficienti di trasformazione e, appunto, gli adeguamenti per via amministrativa dei requisiti di pensionamento alla speranza di vita. E si spiega che eventuali interventi di legge «diretti non tanto a sopprimere esplicitamente gli adeguamenti automatici ma a limitarli, differirli o dilazionarli, determinerebbero comunque un sostanziale indebolimento della complessiva strumentazione del sistema pensionistico italiano».
Uno scenario proposto prevede l’ipotesi di congelamento permanente del meccanismo di adeguamento alla speranza di vita, con la conseguenza che i livelli attuali per la vecchiaia, l’assegno sociale e l’anticipo pensionistico rimarrebbero invariati. Unica eccezione, nel 2021, la vecchiaia passerebbe comunque a 67 anni in virtù di un clausola di salvaguardia introdotta con la riforma Monti-Fornero su precisa richiesta della Commissione europea e della Bce nel 2011: nello scenario ipotizzato i 67 anni resterebbero costanti negli anni successivi. Ebbene in questa circostanza la spesa per pensioni sul Pil crescerebbe «in dimensioni consistenti fino al 2021 con un profilo crescente che arriverebbe a circa 0,8 punti di Pil nel 2033». L’effetto cumulato è di 21 punti di Pil al 2060.
Numeri che parlano da soli. Ma la Ragioneria va oltre e dice: «Il processo di elevamento dei requisiti minimi e il relativo meccanismo di adeguamento automatico» sulle pensioni sono «dei fondamentali parametri di valutazione dei sistemi pensionistici specie per i paesi con alto debito pubblico come l’Italia». Ciò non solo non solo perché la previsione di requisiti minimi, come quelli sull’età, «è condizione irrinunciabile» per «la sostenibilità» del sistema, ma anche perché «costituisce la misura più efficace per sostenere il livello delle prestazioni». Insomma lo stop all’adeguamento automatico dell’età di uscita alla speranza di vita non solo comporterebbe un «significativo peggioramento del rapporto fra spesa e Pil» ma causerebbe anche «un abbattimento crescente nel tempo dei tassi di sostituzione», ovvero del rapporto tra l’ultima retribuzione e l’assegno Inps. Nell’esempio proposto mantenendo fino al 2020 i 66 anni e 7 mesi per la vecchiaia e costante a 63 anni e 7 mesi il requisito per l’anticipo di chi ha maturato una pensione pari a 2,8 volte il minimo, la soppressione degli adeguamenti automatici abbatterebbe al termine del periodo di previsione i tassi di sostituzione fino al 12,8% (22,8% per i lavoratori autonomi).
Nel report vengono confermate le compensazioni degli effetti della transizione demografica sulla spesa generati dall’insieme delle riforme adottate dal 2004 in avanti (60 punti di Pil entro il 2060). Ma si registra anche come le misure varate con la manovra dello scorso anno siano andate controtendenza: «Per la prima volta dopo oltre 20 anni il pacchetto di misure riguardanti il sistema pensionistico ha previsto un ampliamento della spesa». (Davide Colombo – Il Sole 24 Ore – 9 agosto 2017)
Damiano: bisogna rallentare l’innalzamento a 67 anni. La scadenza? Oltre il 2019
di Lorenzo Salvia. «Non si può ridurre tutto a un semplice calcolo geometrico. Dietro quei numeri c’è la vita delle persone. Ed è alla vita delle persone che la politica deve guardare». Alla Camera Cesare Damiano (Pd) è il presidente della commissione Lavoro, materia per la quale è stato anche ministro nel secondo governo Prodi. Assieme a un altro ex ministro del Lavoro — Maurizio Sacconi, governo Berlusconi — si è schierato contro il meccanismo che nel 2019 porterebbe l’età della pensione a 67 anni, cinque mesi in più rispetto ad ora.
La Ragioneria generale dello Stato dice che, se rallentiamo l’aumento dell’età pensionabile, mettiamo a rischio la sostenibilità dei conti pubblici, con il pericolo di dover tagliare gli assegni. Cosa risponde?
«Mi sembra un intervento a gambina tesa, un altro tentativo per fermare il dibattito sulla revisione di un meccanismo che non è più giustificato. Comunque sempre meglio del precedente intervento, quello era a gambona tesa». E quale sarebbe?
«Il presidente dell’Istat, Tito Boeri, aveva detto che cancellare l’adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita costerebbe 141 miliardi di euro. Peccato che siano numeri campati in aria».
Campati in aria? Ma come fa a dirlo?
«Lo dico e lo ripeto. Perché nessuno ha mai chiesto di cancellare del tutto quel meccanismo. Io e il collega Sacconi abbiamo solo chiesto di studiarne uno nuovo che rallenti l’aumento dell’età della pensione. Già oggi, in questo campo, l’Italia ha il record mondiale. Non esageriamo».
D’accordo. Ma dei costi ci sarebbero comunque. Le stime dicono che rinviare di dodici mesi l’aumento a 67 anni, costerebbe almeno 1,2 miliardi di euro l’anno. Non poco.
«Dipende dal tipo di confronto che facciamo. L’ultimo Documento di economia e finanza del governo ha certificato che con le ultime riforme delle pensioni, tra il 2004 e il 2050 lo Stato risparmierà a regime 900 miliardi di euro. Sa quanto vale, rispetto a questa montagna, quel costo aggiuntivo?»
Un attimo, sarebbe….
«Lo 0,13%. Nulla. E noi vogliamo fare tutto questo bailamme per lo 0,13%?».
Presidente, aspetti. Qui stiamo confrontando risparmi futuri e possibili con costi immediati e certi. C’è una bella differenza.
«No, qui si sta sollevando un polverone preventivo per sbarrare la strada a un intervento di semplice buon senso».
Buon senso o campagna elettorale? La Ragioneria dello Stato dice che riconsegnare l’adeguamento dell’età pensionabile alla «discrezionalità politica» porterebbe a un «peggioramento del rischio Paese». Ci sarebbero problemi, con Bruxelles e non solo.
«E ce ne faremo una ragione. Anche perché il tono apocalittico della Ragioneria dello Stato è contraddetto da un altro passaggio dello stesso documento».
Quale?
«In ogni caso l’età della pensione salirà a 67 a partire dal 2021. E questo per una clausola di salvaguardia richiesta dalla commissione europea e dalla Banca centrale europea. Rallenteremmo di due anni. A me andrebbe benissimo».
Per farlo bisogna comunque trovare delle risorse aggiuntive nella prossima legge di Bilancio. I soldi sono quelli che sono. Per fermare l’aumento dell’età pensionabile non si rischia di smontare un’altra misura allo studio, e cioè il taglio delle tasse sul lavoro per i giovani? Insomma, il lavoro o le pensioni? I giovani o gli anziani?
«Il lavoro e le pensioni. Il taglio delle tasse sul lavoro in modo strutturale e non con i bonus temporanei del Jobs act è fondamentale. Ma è fondamentale anche la revisione di quel meccanismo infernale che spinge l’asticella della pensione sempre più in alto. Così come l’ampliamento della platea per l’Ape social, l’anticipo pensionistico per le categorie sociali deboli, come i disoccupati o le persone con un familiare disabile a carico».
Insisto, ma se alla fine fosse costretto a scegliere, quale verrebbe prima?
«Tutte e due, ripeto. Anche perché non sono in contrasto ma collegate fra loro. Se noi teniamo al lavoro persone sempre più anziane non ci saranno mai incentivi efficaci per assumere giovani». (IL Corriere della Sera – 9 agosto 2017)
9 agosto 2017