Pensioni agganciate ai prezzi, sì di Letta: «Dobbiamo intervenire sull’indicizzazione». Adeguamento fino a 3mila euro
«L’indicizzazione va portata fino al completamento». Nonostante la platea popolare, le telecamere sono quelle di Domenica In , il messaggio è forse un po’ criptico. Ma quella che arriva dal presidente del consiglio Enrico Letta è di fatto la benedizione all’intesa fra Pd e Pdl sulle pensioni, e cioè al ritorno dell’indicizzazione al 100%, vale a dire l’adeguamento totale al costo della vita, per gli assegni fino a 3 mila euro lordi al mese. Lasciando il blocco degli aumenti automatici solo per le pensioni che superano quella soglia. Il disegno di legge di Stabilità, approvato dal consiglio dei ministri a metà ottobre ed ora all’esame del Senato, va già in questa direzione. Ma per il momento è più timido. Reintroduce sì l’indicizzazione, cancellata con il decreto salva Italia per tutte le pensioni al di sopra dei 1.500 euro lordi al mese.
Ma solo per gradi: la rivalutazione sarebbe del 100% fino a 1.500 euro, del 90% fino a 2 mila, del 75% fino a 2.500 e del 50% fino a 3 mila. Per poi azzerarsi una volta superata la fatidica soglia. L’intesa Pd Pdl, a questo punto con l’ok di Letta, prevede la rivalutazione completa per tutti gli assegni al di sotto dei 3 mila euro. Il punto, come sempre, è dove trovare le risorse. Ed è qui che la questione si complica. Il Pd propone di togliere qualcosa ai pensionati più ricchi, abbassando l’asticella già fissata per il nuovo contributo di solidarietà, la tassa aggiuntiva che torna con una nuova veste giuridica dopo la bocciatura da parte della Corte costituzionale. Scatterebbe non più sopra 150 mila euro, come nel testo uscito da Palazzo Chigi, ma sopra 90 mila.
Il Pdl, invece, vorrebbe prendere i soldi da altri voci e infatti conferma le sue proposte sulla rottamazione delle cartelle esattoriali e sull’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie. E il presidente del consiglio? «Intervenire sulle pensioni d’oro è un fatto utile che va fatto, ma simbolico che porterà poco in cassa», dice sempre su Rai uno. C’è sempre bisogno di una lettura ragionata, ma stavolta il messaggio è più chiaro. Va bene il contributo di solidarietà allargato proposto dal Pd, è la posizione del governo, ma senza esagerare. Perché prendere da lì tutti i soldi per far ripartire la rivalutazione delle pensioni più basse potrebbe spingere troppo in basso l’asticella minima e troppo in alto le aliquote, con alti rischi di impopolarità.
Vale la pena di ricordare che le pensioni Inps superiori ai 90 mila euro lordi sono in tutta Italia appena 35 mila. Anche se è vero che la piramide del nostro sistema è clamorosamente sbilanciata, come confermano una serie di dati Istat, forse non a caso rilanciati proprio ieri, alla vigilia della discussione in Senato. «Questa – dice in ogni caso Letta – è la prima legge di Stabilità, da diversi anni, che non interviene sulla spesa pensionistica». Resta da vedere cosa accadrà davvero in Parlamento. (Lorenzo Salvia – Corriere della Sera)
L’analisi. La legge di stabilità nella polveriera. Gli ingredienti del conflitto distributivo ci sono tutti
di Tito Boeri. Camminiamo ormai nel mezzo di una polveriera. E molti, troppi, continuano imperterriti ad accendere fiammiferi. Ci perdoni Emma Bonino: non stiamo, come lei, parlando della Siria, ma del nostro Paese. Gli ingredienti del conflitto distributivo ci sono tutti. Anni di bassa crescita seguita da un’interminabile recessione hanno ridotto di almeno un decimo la dimensione della torta. Come sempre in questi casi, ci si azzuffa per qualche briciola mentre il conflitto distributivo latente può esplodere da un momento all’altro. Come in Argentina negli anni ’80, come in Turchia all’inizio del nuovo millennio, come in Grecia più di recente.
Ma anche senza andare tanto lontano, per capire in che situazione ci troviamo basta ricordarsi il significato del voto politico di 9 mesi fa, quella protesta generalizzata, interclassista, poco ideologizzata, ma fortemente caratterizzata dal voto giovanile, che ha portato al successo del movimento di Beppe Grillo. Bene anche prendere atto del fatto che le istituzioni che dovrebbero mediare lo scontro più forte, quello che si consuma tra il lavoro e la disoccupazione, hanno perso talmente rappresentatività da non riuscire più a gestire il conflitto. Lo ammettono gli stessi leader del sindacato.
In queste condizioni il governo e le nostre istituzioni rappresentative dovrebbero preoccuparsi prioritariamente di ricostruire le fila di un contratto sociale in via di sgretolamento, a partire dal cercare di riguadagnarsi la fiducia dei cittadini. Lo spettacolo invece è disarmante. Tre esempi ne sono la testimonianza.
Sono più di 3000 gli emendamenti alla Legge di Stabilità presentati alla Commissione Bilancio del Senato. Ancora più del loro numero colpisce il fatto che per due terzi provengano dalle file della maggioranza, un segno evidente della sua incapacità di stabilire priorità. Ma quei 3093 emendamenti mettono anche in luce come la classe politica cerchi di capitalizzare sul conflitto distributivo: in una manovra quasi a saldo zero, danno qualcosina a qualcuno per toglierla a qualcun altro. Le redistribuzioni sono minime e poco trasparenti, lasciando aperto il sospetto che anche i presunti beneficiari alla fine ci perdano. Nel frattempo sono finiti i soldi per la Cassa Integrazione in deroga. Questi ammortizzatori devono essere riformati perché funzionano malissimo, ma non ci si può permettere di lasciare senza alcuna copertura chi perde il lavoro. Invece le energie del governo sono assorbite da un altro problema: trovare la “quadra” sulla tassazione degli immobili. L’accordo che si profila all’orizzonte prevede che la nuova tassa sui servizi, la cosiddetta Tasi 1) garantisca lo stesso gettito dell’Imu 2) abbia gli stessi effetti distributivi dell’Imu e 3) conceda gli stessi spazi di manovra ai municipi… dell’Imu. Il tutto ovviamente chiamandosi Tasi e non più Imu. Gli italiani hanno tutto il diritto di sentirsi presi in giro.
Il secondo esempio ha a che vedere coi costi della politica. Non solo nulla è stato fatto in questi anni di crisi per ridurli, ma si è cercato ulteriormente di occultarli agli occhi dell’opinione pubblica. Il Senato non ha ancora reso pubblico il proprio bilancio consuntivo 2012, né il preventivo 2013. La Camera dei Deputati lo ha fatto solo da poche settimane e, come documentato da Roberto Perotti su lavoce.info, ha aumentato le proprie spese sostenendo di fare esattamente il contrario. La Corte Costituzionale, come mostrato sempre da Perotti, continua a garantirsi privilegi che non hanno eguali in alcuna democrazia rappresentativa. Spendiamo, ad esempio, 750 euro al giorno per ogni singolo giudice della Corte solo per garantirgli un’auto blu. Gli ex-giudici in pensione e superstiti ricevono, in media, un assegno di 200.000 euro. Non stupisce che abbiano dichiarato incostituzionale il taglio alle pensioni d’oro, il che ci porta al terzo esempio.
Il dibattito pubblico in corso sui tagli alle cosiddette pensioni d’oro preoccupa per la sua grossolanità. Stiamo trattando del caposaldo del patto fra generazioni su cui si regge una società. I giovani versano contributi per pagare le pensioni agli attuali pensionati nell’attesa di venire poi trattati allo stesso modo. È un equilibrio molto fragile. Se si vuole intervenire su trattamenti pensionistici in essere bisogna farlo nel segno dell’equità, non certo della punizione nei confronti di chi ha versato contributi per un’intera vita lavorativa. Si tratta quindi di procedere con riduzioni marginali, al massimo del 5 per cento, dei trattamenti riservati a chi oggi soddisfa due condizioni: ricevere pensioni molto più alte dei contributi versati durante la propria carriera lavorativa e cumulare fra di loro trattamenti superiori ad una soglia minima (perché è giusto a garantire un reddito minimo a chi non può più lavorare e non è riuscito a maturare i requisiti per una pensione piena). Ci sono molti casi di questo tipo: come messo in luce dal Rapporto della Commissione Brambilla, i ministeriali e i dipendenti degli enti locali andati in pensione a 58 anni col sistema retributivo ricevono in genere trattamenti tre volte superiori ai contributi versati. Molti artigiani e commercianti sono andati in pensione con premi del 750 e del 500 per cento, rispettivamente, rispetto a quanto da loro versato.
A queste persone, che l’Inps può identificare senza margini di errore, è giusto chiedere oggi un contributo basato sul principio che chi ha avuto di più, dovrebbe dare di più. Ma nel dibattito pubblico, negli show televisivi, persino nelle simulazioni dei tecnici dei partiti si fa tutt’altro: si procede a tagliare di qua e di là, in modo indiscriminato, chi ha pensioni alte. Attenzione perché dietro a quelle spese tagliate con l’accetta ci sono delle persone. E chi oggi versa i contributi elevati si ricorderà di come sono stati trattati anche lavoratori che hanno ricevuto pensioni non lontane dai contributi versati lungo un’intera carriera lavorativa, senza mai evadere tasse e contributi.
È molto difficile governare il conflitto distributivo in condizioni di crisi. Purtroppo non possiamo permetterci di aspettare la crescita per affrontarlo. Anche perché un paese in cui nessuno si fida dell’altro difficilmente tornerà a crescere in modo duraturo. Evitiamo almeno di scherzare col fuoco. (Repubblica)
11 novembre 2013