Roberto Giovannini. Palazzo Chigi minimizza, ma diciamo la verità: la sentenza con cui la Corte Costituzionale ieri ha bocciato il blocco deciso dal governo Monti alla perequazione al costo della vita delle pensioni oltre i 1.200 euro mensili netti è un vero cataclisma.
Con un tratto di penna, la Consulta costringerà il governo a sborsare forse quattro, forse cinque, forse sei miliardi di euro per rimborsare ai sei milioni di aventi diritto le somme congelate dal decreto «SalvaItalia» nel biennio 2012-2013, e cumulate negli anni successivi. Un costo «una tantum» che aumenterà di un altro po’ il già elevatissimo debito pubblico. E che invece sul fronte del deficit andrà diviso su quattro anni. Sul bilancio 2015 peserà quindi da 1 a 1,5 miliardi di euro. Il che significa che del già fantomatico «tesoretto» messo da parte da Renzi (se mai fosse esistito davvero) non rimarrà più nulla.
Palazzo Chigi: calma
Palazzo Chigi però – appunto – invita alla calma. La «velina» diffusa nelle redazioni dice che si sta «verificando l’impatto che la sentenza della Consulta può avere sui conti pubblici. Non sarà una prova facile, ma non siamo molto preoccupati». Le «fonti di Palazzo Chigi» dicono che l’Esecutivo Renzi è al governo «per risolvere questioni complesse, per dare risposte certe e chiare, per trasformare eventuali criticità in opportunità. Quindi calma e gesso: studieremo la sentenza e troveremo la soluzione».
La soluzione, si teme, sarà quella di dover pagare. Davvero sorprendente la sentenza della Corte Costituzionale, perché non più tardi di due mesi fa la stessa Corte pur bocciando la «Robin Tax» sulle aziende petrolifere aveva scelto una strada diversa: in nome del pareggio di bilancio scritto in Costituzione, aveva stabilito che gli ingenti effetti economici della sentenza non fossero retroattivi. Stavolta la Consulta ha invece stabilito diversamente, affermando che l’interesse dei pensionati, specie se «titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite». E che il diritto a una pensione adeguata è un «diritto costituzionalmente fondato» che non va «irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio».
Eppure le «esigenze finanziarie» di quel certamente impopolare provvedimento le conoscevano tutti: il rischio di default dell’Italia in quell’autunno 2011 e la necessità di fare cassa in modo rapido per far quadrare i conti. E non è vero che il blocco della perequazione – chissà perché attribuito all’allora ministro del Lavoro Elsa Fornero, che dovette subirlo tanto da essere travolta dall’emozione – fu generale. La misura non colpì infatti l’80 per cento circa dei pensionati, ovvero la fascia più povera. Lo stop alle indicizzazioni per due anni riguardò circa sei milioni di pensioni di importo mensile superiore a tre volte il trattamento minimo Inps, ovvero 1.500 euro mensili lordi (1.200 al mese netti).
Impatto rilevante
Presto sapremo quanto spetterà a ciascuno. L’impatto, comunque, ammette il viceministro all’Economia Enrico Morando, «sarà rilevante». Moltissime le reazioni e i commenti. Matteo Salvini, della Lega Nord, parla di «un bello sberlone alla Fornero, al Pd e a chi votò quella legge infame. Ora aspetto da Renzi una risposta: sono pronto, se serve, a votare una proposta Lega-Pd». «Il Pd, che votò la norma, ora la cambi», è l’appello di Nichi Vendola, Sel, in sintonia con quanto chiede la Cgil. La Cisl auspica che la decisione della Consulta sia «un monito per il governo», mentre la Uil chiede di «restituire il maltolto». Laura Puppato, Pd, chiede a Giuliano Poletti di ascoltare le proposte del presidente dell’Inps Boeri, perchè è arrivato il tempo di una maggiore parità di trattamento. Approfittiamo di questa sentenza per cambiare le cose alla luce del sole».
La Stampa – 1 maggio 2015