di Domenico Comegna. Pensioni sempre più povere. Sia quelle in pagamento, sia quelle future. Per ogni mille euro, in prospettiva, bisognerà addirittura restituirne uno al mese all’Inps. Colpa della deflazione che ha «raffreddato» i prezzi ma anche l’assegno previdenziale, che è agganciato alla dinamica del costo della vita.
Gli assegni Inps in pagamento, come è avvenuto lo scorso anno, a gennaio 2016 dovranno restituire all’ente di previdenza la differenza (0,1%) tra il tasso d’inflazione adottato provvisoriamente (+ 0,3%) e quello definitivo relativo al 2014 (+ 0,2%). Le regole attuali, lo ricordiamo, prevedono che la perequazione venga attribuita al 100% per i trattamenti complessivi fino a tre volte il trattamento minimo (1.500 euro mensili); al 95% per quelli da tre a quattro volte il minimo; al 75% per quelli da quattro volte a cinque volte il minimo; al 50% per quelli da cinque a sei volte il minimo e al 45% per i trattamenti superiori a 6 volte il minimo. Tutte cifre al lordo dell’Irpef.
L’esempio
In altre parole, un pensionato con 2.000 euro lorde (1500 nette mensili) a gennaio si è visto attribuire un aumento di 7 euro, di cui uno e rotti dovrà essere restituito all’inizio dl prossimo anno. E per il 2016 si profila la deflazione. L’Istat ha appena pubblicato le variazione dei prezzi in Italia per il mese di gennaio, quando è stato registrato un calo tendenziale dello 0,6% e dello 0,4% rispetto al mese di dicembre, mese in cui l’inflazione era stata pari a zero. Certo è difficile spiegare ad un pensionato con mille euro al mese che l’anno prossimo il suo assegno rimarrà completamente fermo, perché l’Istat sostiene che i prezzi del supermercato non sono aumentati. E, ovviamente, il mancato incremento si proietta, strutturalmente, anche negli anni successivi.
Il rischio per i giovani
La crisi affama le pensioni. La scarsa crescita del Pil si ripercuote sulla rivalutazione dei contributi versati all’Inps, che serviranno un domani a calcolare la pensione. La questione interessa molto da vicino i giovani. Ossia coloro che hanno cominciato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995 e che rientrano appieno nel criterio di calcolo della pensione cosiddetto «contributivo». Il meccanismo di calcolo è abbastanza semplice. Tre i parametri di riferimento: la retribuzione, l’aliquota di computo e il coefficiente di trasformazione del montante contributivo In pratica, con il versamento dei contributi il lavoratore accantona il 33% (aliquota di computo dei dipendenti) della retribuzione. Ciò avviene mese per mese, anno per anno, andando a formare il cosiddetto «montante contributivo». Montante che è soggetto a rivalutazione annuale sulla base della dinamica quinquennale del Pil (il prodotto interno lordo). E qui sta il problema: il Pil non è l’Istat che misura il potere di acquisto. Il Pil riflette la capacità di un paese di far girare l’economia. Questa capacità scarseggia, ultimamente, un po’ per la crisi economica e un po’ per altre ragioni. E dunque anche il Pil non cresce, comportando, di conseguenza, una scarsa rivalutazione (cioè guadagno) dei contributi accumulati all’Inps.
Il Corriere della Sera – 5 febbraio 2015