Luca Fiorin. Non arriva a ripetersi in tutto il Veronese nemmeno 850 volte in un anno la tradizione della macellazione nelle corti rurali o nelle case di campagna dei maiali e la loro trasformazione in salumi e carni da consumo. Si tratta di uno degli elementi fondanti della vita rurale veronese e veneta.
Se da una parte nessuno si azzarderebbe a mettere in discussione l’importanza che da secoli assume la pratica del «far su el mascio», dall’altra i numeri testimoniano in maniera impietosa che si tratta di un fenonomeno dalla grande storia ma dall’attualità ben più modesta. La stagione delle macellazioni si sta avviando verso la fine e anche quest’anno si chiuderà probabilmente con una percentuale di animali lavorati inferiore di più del 5 per cento rispetto a quella dello scorso inverno. Il mutare delle abitudini di chi vive in campagna e la sempre più evidente mancanza di ricambio generazionale per quanto riguarda rallevamento domestico dei maiali, si stanno infatti facendo sentire anno dopo anno in maniera sempre più pesante.
I numeri fomiti da chi da le autorizzazioni per uccidere macellare i suini ovvero i servizi veterinari delle Ulss, parlano infatti di un fenomeno che da anni è in costante diminuzione.
Nel territorio dell’azienda sanitaria 21, quella che opera nella pianura, gli ultimi dati parlano di soli 130 suini macellati a domicilio. «Una cifra», spiega il direttore del dipartimento di prevenzione, che comprende anche il servizio veterinario, Graziano Galbero «che è in tendenziale calo, visto che sono sempre di più coloro, privati cittadini od agriturismi che preferiscono utilizzare per l’uccisione e la macellazione strutture riconosciute dalle istituzioni sanitarie, per poi portarsi a domicilio le carni da lavorare». Se i maiali ammazzati a casa sono 130, infatti, quelli che vengono lavorati nei macelli sono ben 2050. Qui, come nel resto della provincia, a questi numeri dovrebbero poi essere aggiunti quelli relativi a chi non passa dagli uffici dell’Asl prima di ammazzare i maiali e mettere mano alle loro carni. Non pare essere una percentuale particolarmente rilevante visto che queste attività sono oggetto di un’attenta regolamentazione che viene concretizzata a colpi di ordinanze e controlli. In ogni caso, la pianura è la zona della provincia in cui è meno diffuso il lavoro dei norcini.
Basta passare nell’area in cui opera l’Ulss 22, infatti, per scoprire che di suini qui se ne lavorano almeno 280 l’anno. L’area in cui si macellano più bestie è quella pedemontana, anche se alla fine questo accade un po’ dappertutto, anche nel villafranchese e nella zona del lago. In ogni caso sempre più diffusa anche da queste parti è l’abitudine di ricorrere ai macelli. Una pratica che fa si che non sia necessario chiamare i veterinari per le visite pre e post uccisione che servono ad escludere la presenza nelle carni di elementi dannosi per la salute.
L’area in cui il “mas-cio” è ancora un re, però, è quella della montagna e dell’Est. Quella della 20. Qui le macellazioni “casalinghe”, che sono iniziate all’inizio di novembre e si concluderanno quasi completamente questa settimana, riguarderanno anche questa volta più di 400 maiali. «Nonostante il calo costante», spiega il dirigente veterinario Riccardo Murari, «sia nella fascia montana di media altezza che nel Colognese la tradizione dell’allevamento e della lavorazione del maiale ad uso domestico resiste. Certo molto sta cambiando, ma c’è ancora chi continua a portare avanti questa tradizione». Una tradizione che l’invecchiamento dei contadini, il mutare delle abitudini alimentari e le difficoltà economiche per ora non sono riuscite ad uccidere. Anche se le prospettive non sembrano avere il colore roseo del maiale.
L’Arena – 6 febbraio 2015