Le carriere lavorative brevi e incerte delle donne generano assegni pensionistici più leggeri di quelli degli uomini. È la dura legge del sistema contributivo, ieri confermata con una fitta serie di dati statistici dall’Istat, in occasione di un’audizione in Commissione Lavoro alla Camera sul tema dell’impatto in termini di genere della vigente normativa previdenziale.
Oltre la metà delle donne pensionate (4,5 milioni di persone su 8,6 milioni) fa i conti con redditi da pensione inferiori a 1.000 euro contro appena il 33,2% degli uomini. Per contro appena 185mila donne possono contare su oltre 3.000 euro di pensione al mese (il 2,2%) a fronte di 579mila uomini (il 7,6%). Le donne, ricorda l’Istat, hanno carriere discontinue e stipendi in media più bassi di quelli degli uomini e fino a che non saranno superate le diseguaglianze di genere nel mercato del lavoro e nell’organizzazione dei tempi di vita i differenziali nelle pensioni non saranno colmati.
In circa il 30% dei casi, inoltre, le donne occupate hanno lasciato il lavoro dopo la nascita del figlio e la percentuale è al 25% anche per le persone nate dopo il 1964.
Ieri le Camere hanno approvato a maggioranza assoluta la relazione del Governo che accompagna la Nota al Def con lo spostamento di un altro anno del pareggio di bilancio. E le risoluzioni di maggioranza impegnano il governo, tra l’altro a introdurre in legge di Stabilità forme di flessibilità in uscita per le pensioni che siano più leggere di quelle già in vigore. Sul dossier a questo punto diventa decisivo il vertice tecnico-politico atteso per lunedì a palazzo Chigi. In campo le ipotesi di una flessibilità generalizzata con penalizzazioni dai 63 anni in poi con 35 di contributi oppure forme ampliate di prestito pensionistico con contributi aziendali ai lavoratori in uscita. Ipotesi quest’ultima che ieri il presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha indirettamente criticato («No a interventi parziali ma aspettiamo la Stabilità»). Il prestito aziendale è stato criticato ieri anche da Maurizio Sacconi. Quale che sarà la scelta è molto probabile che la misura finisca in un disegno di legge collegato alla manovra. Lo strumento, previsto dall’art. 4 della legge 92/2012, finora è stato usato da 8.220 lavoratori previsti da accordi aziendali per 5.502 esodi (con Enel che ha fatto da capofila). Gli occupati tra i 58 e i 63 anni, ovvero la platea dei potenziali destinatari delle misure di flessibilità in uscita dal lavoro, sono quasi due milioni, due terzi dei quali uomini, ha spiegato ieri Istat. I disoccupati in questa fascia di età sono 111.000 e sono passati dal 3% del 2008 al 5,3% del 2015. (Davide Colombo – Il Sole 24 Ore)
Ma anche così la flessibilità rischia di costare troppo
Il pacchetto è pronto. Prevede la possibilità di lasciare il lavoro quattro anni prima rispetto alla soglia standard della Legge Fornero. E che per ogni anno di anticipo l’assegno subisca un taglio pesante, il 3,8% secondo l’ultima versione, senza sconti per quelli più bassi. Ma anche così la flessibilità sulle pensioni, chiesta pure dalle risoluzioni sulle note di aggiornamento al Def approvate ieri alla Camera e al Senato, rischia di costare troppo: quasi 10 miliardi di euro in tre anni. Nel 2016 lo sforzo sarebbe sostenibile: intorno al miliardo e mezzo, secondo le simulazioni sul tavolo dei tecnici. Ma diventerebbe difficile da reggere nel 2017 (3,5 miliardi) e ancora di più l’anno successivo, 4,5 miliardi. Un crescendo che toglierebbe fiato ai programmi del governo sul taglio delle tasse, che proprio per il 2018 vuole ridurre la «madre di tutte le imposte», l’Irpef, quella sul reddito delle persone fisiche.
Per questo sembra difficile che il pacchetto entri nel disegno di legge di Stabilità. Nel provvedimento che il governo deve presentare la prossima settimana ci saranno di sicuro la settima salvaguardia per gli esodati, i lavoratori che rischiano di rimanere senza stipendio e senza pensione, e l’estensione di «opzione donna», che consente l’uscita anticipata alle lavoratrici. Sono in ribasso le ipotesi di flessibilità soft : il prestito pensionistico, cioè l’uscita anticipata in cambio di un anticipo di 700 euro al mese da restituire poi a rate; i tecnici temono che le domande sarebbero poche. Mentre l’idea di limitare l’uscita anticipata ai soli lavoratori delle aziende in crisi viene considerata con qualche perplessità. Come finirà?
È possibile che il pacchetto vero e proprio sulla flessibilità (quello da 10 miliardi) venga rinviato ad un altro provvedimento, tecnicamente un collegato, che viaggerebbe in parallelo alla Stabilità ma in caso di problemi potrebbe anche essere lasciato su un binario morto. Nella Stabilità, invece, entreranno l’abolizione di Imu e Tasi sulla prima casa, e una versione «leggera» della local tax . Sulle seconde case Imu e Tasi saranno unificate, con «un’aliquota unica pari alla sommatoria delle due attuali», garantisce il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti.
Dovrebbe saltare, invece, l’unificazione dei tributi minori, come quello per l’occupazione di suolo pubblico. Dal lato delle coperture, ci sono buone notizie dalla voluntary disclosure , il rientro dei capitali all’estero: alla fine di settembre il gettito è arrivato a 1,9 miliardi di euro. La metà delle 63 mila domande arriva dalla sola Lombardia. Mettendo insieme tutto il Sud e le isole ci si ferma a poco più di 2 mila. Per oggi è in programma la revisione del rating dell’Italia da parte di Moody’s. (Lorenzo Salvia – Il Corriere della Sera)
9 ottobre 2015