Marco Rogari. A Yoram Gutgeld la spesa decentrata, in primis quella sanitaria e degli enti locali, e a Roberto Perotti la spesa “centrale”, a partire da quella dei ministeri e dai costi della politica. Sarà questa la ripartizione dei compiti tra i due consiglieri di Matteo Renzi che dovrebbero ricevere a breve dallo stesso premier l’incarico di dare ulteriore spinta alla spending review.
Con un chiaro obiettivo: individuare, anche grazie alla nuova regia di Palazzo Chigi, le aree di spreco e i possibili interventi da attuare prevalentemente con la prossima legge di stabilità per recuperare gran parte delle risorse necessarie per disinnescare le clausole di salvaguardia introdotte dalle ultime due “ex Finanziarie”. L’ultima in ordine cronologico è quella da quasi 13 miliardi nel 2016 (più altri 19,2 nel 2017 e 21,9 miliardi nel 2018) sotto forma di aumento delle aliquote Iva, alla quale vanno aggiunte quelle da 3,2 miliardi per il prossimo anno (6,2 nel 2017 e 6,2 miliardi) ereditate dall’esecutivo Letta e fin qui soltanto parzialmente sterilizzate.
Gutgeld, economista e deputato Pd, e Perotti, professore di economia all’Università Bocconi, fanno già parte del team di 7 consiglieri economici della Presidenza del consiglio creato da Renzi nello scorso settembre. La formalizzazione di un incarico specifico in tema di revisione della spesa, con un Dpcm in arrivo concordato con il ministro Padoan, avrebbe il sapore di un’ulteriore dimostrazione della ferma intenzione del Governo di insistere con il processo di spending review, come più volte ribadito dallo stesso Renzi e dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, anche dopo le dimissioni dell’ex commissario straordinario, Carlo Cottarelli.
Il dossier Cottarelli continuerà a rappresentare una base di partenza del lavoro che sarà sviluppato da Gutgeld e Perotti. Ma con un non trascurabile distinguo: l’individuazione anche di micromisure per una vasta gamma di settori e non solo di macro-interventi su aree specifiche come invece aveva prevelantemente fatto l’ex commissario. Nei prossimi giorni, tra l’altro, dovrebbero essere pubblicati i materiali prodotti dai gruppi di lavoro formati a suo tempo dallo stesso Cottarelli sulla base delle indicazioni del Governo Letta.
Gutgeld e Perotti dovrebbero dunque adottare una strategia in parte diversa da quella dell’ex commissario. Che nel suo dossier aveva messo nel mirino le pensioni e il pubblico impiego anche attraverso un massiccio ricorso alla mobilità. Due interventi che non avevano convinto il Governo così come quello sulla razionalizzazione del sistema di illuminazione delle rete stradale (il piano “cieli bui”). Ora invece sotto la lente dovrebbero finire soprattutto gli sprechi nella spesa sanitaria a livello locale, le uscite delle Regioni, gli immobili, e gli incentivi alle imprese (soprattutto i meccanismi di erogazione). Il Governo avrà anche la possibilità di cifrare i risparmi, non ancora quantificati, del taglio delle partecipate, da realizzare entro il 2015, e della riforma della Pa all’esame del Senato.
Intanto ieri il presidente della Corte dei conti, Pasquale Squitieri, ha detto che «la riduzione della spesa va governata affinché non si traduca in un abbassamento dei servizi al cittadino e alle imprese».
Gutgeld a caccia di 10 miliardi. Tagli indispensabili per scongiurare il rincaro dell’Iva
C’è una nube sospesa su questo Paese, ora che sta coprendo l’ultima tappa di una lunga marcia fuori dalla recessione. È solo una macchia in una visuale che da anni non si presentava così nitida. La finanza pubblica è rimasta sotto controllo, malgrado la tentazione di Matteo Renzi un anno fa di disfarsi delle regole europee. L’area euro ha scelto di credere al percorso di modernizzazione del premier, malgrado la tentazione strisciante a Bruxelles (e Berlino) di rimettere l’Italia nella gabbia di qualche procedura di sorveglianza. I tassi sui titoli di Stato sono bassissimi, malgrado un debito che dal 2007 non ha mai smesso di salire. E il deprezzamento dell’euro, insieme a quello del petrolio, promettono una crescita che qui ormai era diventata una parola straniera.
Resta quella nube, compressa in una nota a piè di pagina nell’ultima nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) dell’autunno scorso. Se i conti nei prossimi anni non torneranno, dovrebbe scattare un aumento dell’Iva da 12,4 miliardi nel 2016 e 17,8 nel 2017. L’asticella è esattamente lì: posta all’altezza di un deficit pubblico da ridurre in teoria dal 3% del Pil dell’anno scorso all’1,8% del prossimo. Non è impossibile. Ma se il premier e il ministro dell’Economia ora pensano di far ripartire una revisione della spesa pubblica, è in primo luogo perché sperano di mettersi al riparo da quella clausola che somiglia da vicino a una trappola.
Un’economia convalescente non può rimettersi in cammino sotto la minaccia di una doccia fredda da almeno 12 miliardi di tasse in più su consumi e investimenti. Intervenire sulla spesa, con l’operazione lanciata ieri dal Consiglio dei ministri che vedrà Yoram Gutgeld alla guida della spending review , in questa luce appare più una scelta obbligata che un atto di eroismo. È vero che il calo degli interessi sul debito dovrebbe arrivare a 10 miliardi in due anni, almeno secondo le stime della Corte dei Conti sulla base degli interventi della Banca centrale europea sui titoli di Stato italiani. Ma l’esperienza degli Stati Uniti mostra che i tassi a lungo termine possono persino salire, una volta che una banca centrale inizia davvero a comprare e dunque fa crescere le aspettative di inflazione.
Di qui, in primo luogo, la scelta di riattivare la spending review.
Quella preparata a suo tempo dal vecchio “zar” del settore, Carlo Cottarelli, tra non molto (meglio tardi che mai) sarà visibile in Rete. Ma lì in gran parte resterà. Gutgeld, con l’aiuto dell’economista della Bocconi Roberto Perotti e l’appoggio del presidente dell’Inps Tito Boeri, con ogni probabilità pensa a un disegno diverso. Non tanto nelle dimensioni degli interventi che non si discostano molto da quelle su cui aveva lavorato Cottarelli: probabilmente 8 o 10 miliardi di tagli da iscrivere nella Legge di stabilità per il 2016 e un altro intervento per l’anno successivo. A quel punto, ammesso che vada davvero così, i vari governi di questa legislatura avrebbero ridotto la spesa di quasi il 2% del Pil. L’unica certezza è che per ora non è successo, al contrario: il costo dello Stato nel 2014, in crescita continua, ha superato di netto il 51% del fatturato dell’economia.
Ma se la taglia della spending review ricorda quella di Cottarelli, l’approccio promette di essere diverso. I settori questa volta dovrebbero guardare sempre agli enti locali, ma ancora di più allo Stato centrale: le mille articolazioni dei ministeri nei territori, mai raccolte in singoli immobili; i sussidi alle imprese e al trasporto pubblico, spesso inefficienti; la nebulosa delle società partecipate dagli enti locali, sulle quali le giunte dovranno presentare piani di “razionalizzazione”.
Poi c’è il capitolo della spesa sociale. Uno dei grandi punti di rottura fra Renzi e Cottarelli furono le pensioni, sulle quali il secondo voleva intervenire: secondo le stime del Def, il loro peso aumenta di 28 miliardi tra l’anno scorso e il 2018. Il premier resta contrario a un taglio degli assegni già maturati, ma magari non proprio di tutti. Esistono aree nelle quali gli abusi sono ormai visibili a occhio nudo, benestanti che incassano doppia e tripla protezione sociale; nel frattempo, ormai 6 milioni di persone in Italia versano in povertà e spesso restano senza sostegno dall’Inps o dall’assistenza sociale. Era un riequilibrio da tentare prima. Ora Gutgeld, Perotti e Boeri hanno la chance di rendere l’Italia più simile a qualunque altro Paese europeo dove il welfare serve a proteggere i deboli. Non i furbi, i fortunati o quelli con più numeri di telefono nell’agenda del cellulare.
Il Sole 24 Ore e Repubblica – 13 marzo 2015