Rimane in servizio il dipendente pubblico che, pur avendo raggiunto l’anzianità massima contributiva di 40 anni, non ha ancora compiuto 65 anni di età. Il principio è posto dalla Cassazione con la sentenza 18099/16, depositata ieri, e riguarda, nel caso specifico, un dipendente comunale. L’ente pubblico, in altri termini, non può collocare forzatamente a riposo il lavoratore limitandosi ad affermare che lo stesso «possiede i requisiti soggettivi ed oggettivi»: è invece necessaria un’adeguata, specifica motivazione per disattendere la richiesta di trattenimento in servizio. Il datore di lavoro pubblico ha la “facoltà” (articolo 72, comma 11, del Dl 112/08) di risolvere il rapporto di lavoro al raggiungimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni, ma tale facoltà deve esercitarsi, su richiesta dell’interessato e prima del compimento dell’età massima anagrafica, avendo riguardo alle complessive esigenze dell’amministrazione, considerandone la struttura e la dimensione, applicando principi di buona fede, correttezza, imparzialità e buon andamento.
La materia è stata approfondita e innovata con l’articolo 1, comma 5, del Dl 90/14, secondo il quale la predetta facoltà di risolvere il rapporto di lavoro, in presenza della massima anzianità contributiva, non necessita di ulteriori motivazione se vi siano appositi criteri applicativi in un atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto degli organi di controllo.
Coordinando le previsioni dei Dl 112/08, 78/09 e 90/14 con la circolare n. 2/ 2015 del ministro Madia per la semplificazione e la pubblica amministrazione, il quadro attuale esige che il recesso abbia una specifica motivazione, che può essere specifica sul dipendente oppure limitarsi a richiamare appositi criteri applicativi deliberati in atti generali di organizzazione. Ad esempio, potranno adottarsi i principi di armonizzazione nell’esodo di uomini e donne, che evitano discriminazioni, non bastando generici riferimenti a risparmi gestionali, al pubblico interesse o un richiamo alla necessità di riorganizzare la dotazione organica e ridurre il costo del personale.
Il dipendente che voglia rimanere in servizio pur avendo maturato l’anzianità massima contributiva di 40 anni, può quindi pretendere dall’amministrazione un’idonea motivazione, sulla quale poi poter esercitare un controllo di legalità circa l’appropriatezza della facoltà di risoluzione esercitata rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguita dall’ente datore di lavoro. A differenza dei casi normali di recesso (rimesso alla volontà di chi recede), i dipendenti della pubblica amministrazione, pur avendo un contratto di matrice privatistica, possono cioè esigere che il datore di lavoro pubblico rispetti i principi di legalità, imparzialità e buon andamento.
La Cassazione sottolinea quindi che l’ente pubblico datore di lavoro deve operare per ottenere la più efficace ed efficiente organizzazione. Si completa in questo modo, con riguardo alle soglie massime di anzianità (che restano i 65 anni, estensibili a 70 per i vertici di sanità, magistratura e docenza universitaria) un sistema di garanzia: va tutelato il diritto a raggiungere l’età pensionabile, vanno evitati i trattamenti discriminatori basati sull’età dei dimissionati (Cass. 6 giugno 2016 n. 11595) e ora si impone una specifica motivazione in atti organizzativi per superare la volontà del dipendente che voglia rimanere in servizio fino a 65 anni. Non mancano peraltro le eccezioni, come il recente Dl 168/16 per i vertici della magistratura (fino a 72 anni), mentre il record spetta ad un alto magistrato, rimasto a Piazza Cavour (in doveroso risarcimento di carriera) fino ad 83 anni.
Il Sole 24 Ore – 15 settembre 2016