di Tito Boeri e Roberto Perotti, Repubblica. Il nostro sistema sanitario si è trovato largamente impreparato di fronte alla prima ondata del coronavirus perché, paradossalmente, era troppo efficiente in condizioni normali. La spesa pubblica in sanità in rapporto al Pil in Italia era inferiore a quella di quasi tutti gli altri paesi dell’Unione europea. Eppure eravamo tra i migliori nell’evitare morti di pazienti che avevano malattie curabili oltre che nell’offerta di strumentazioni tecnologiche sanitarie avanzate. Gli ospedali costavano poco in rapporto ai servizi offerti ai cittadini perché lavoravano al massimo della propria capacità, con meno della metà di letti e posti in terapia intensiva per abitante della Germania, il cui sistema sanitario veniva additato come particolarmente inefficiente e bisognoso di riforma.
Quando siamo stati investiti dalla pandemia ci siamo ritrovati privi di riserve di letti ospedalieri e con troppi pochi posti in terapia intensiva. Siamo entrati in sofferenza subito, non potendo offrire terapie adeguate a molti contagiati. La Germania, al contrario, ha retto l’urto molto meglio, con tassi di mortalità in rapporto al numero di contagiati nettamente inferiori.
Alla luce dell’esperienza accumulata da febbraio, avremmo dovuto prepararci alla prevedibile recrudescenza autunnale del virus mantenendo sufficienti margini di capacità inutilizzata nei nostri ospedali, soprattutto nelle aree, come Milano e la Lombardia, dove sarebbe stata più rapida la trasmissione della seconda ondata. Eppure nel mezzo della pandemia la Regione Lombardia ha posto tra gli obiettivi dei dirigenti generali degli ospedali (quelli che decidono come organizzare i reparti ospedalieri) quello di recuperare «le prestazioni di specialistica ambulatoriale fortemente ridotte a causa dell’emergenza Covid» fino a raggiungere «una produzione pari ad almeno il 95 per cento di quella del secondo semestre 2019». Questo obiettivo vale per il 25 per cento della valutazione finale dell’operato del direttore generale, da cui dipende la corresponsione di un premio di produzione che può arrivare fino a un quarto del suo trattamento economico. Si tratta, quindi, di un incentivo potente. Inoltre dal raggiungimento di questi obiettivi dipendono le integrazioni salariali, seppur meno significative, offerte a cascata a medici e operatori paramedici.
Tutto questo ha indotto molti ospedali a chiudere o depotenziare i reparti Covid, riorientandoli per soddisfare l’obiettivo imposto dalla Regione. Il risultato è che una settimana fa in Lombardia i posti letto in terapia intensiva erano 983 contro un obiettivo minimo di 1.446, un aumento del 21 per cento rispetto a quanto previsto dal Decreto Rilancio, contro una media nazionale del 36 per cento. Inoltre non si è investito nel trovare o formare personale sanitario in grado di affrontare una nuova ondata di Covid.
Non stiamo negando che il personale degli ospedali italiani si sia meritato un premio consistente per il lavoro svolto durante l’emergenza Covid, tutt’altro. E non stiamo negando la necessità di recuperare le liste di attesa create durante la prima ondata.
Stiamo dicendo che la Regione Lombardia ha commesso un errore evitabilissimo a incentivare lo smantellamento dei reparti Covid per ottenere questi risultati. Analoghe direttive delle Regioni Veneto e Piemonte, da noi consultate, non hanno creato questi incentivi perversi. La Regione Veneto, per esempio, ha attribuito lo stesso punteggio alla «Attuazione di strumenti straordinari per il recupero delle liste di attesa», «l’attrezzamento posti letto di terapia intensiva e semi intensiva», e il «Piano di emergenza aziendale per attivazione posti letto terapia intensiva e semi intensiva».
Il risultato è che, quando Milano è diventata di nuovo l’epicentro dell’epidemia in Italia, gli ospedali non avevano letti disponibili. Tempi di attesa lunghi nei pronti soccorso, diventati una volta di più focolai per il personale medico e gli altri malati, e trasferimenti dei malati anche a centinaia di chilometri di distanza. Questo pone un problema più generale.
Per l’Italia, e la Lombardia in particolare, questo è un momento drammatico: pochi tra il grande pubblico si rendono conto di cosa voglia dire una curva esponenziale. Non è più il momento di improvvisare: le decisioni vanno prese dopo aver ascoltato esperti seri. La Regione Lombardia non manca di consulenti, spesso scelti dai singoli assessori in base a criteri quasi casuali. La Regione dovrebbe adottare un processo più trasparente: nominare un gruppo ufficiale di esperti riconosciuti internazionalmente (quindi escludendo personaggi con esposizione mediatic a ma privi di credenziali scientifiche nel campo specifico del Covid, e privi di contatti con le esperienze straniere) ed eliminare ogni altro canale di consulenza. Non tutte le differenze di opinioni tra esperti saranno eliminate, ed è salutare che sia così, ma almeno i politici avranno accesso a consigli più strutturati, affidabili e trasparenti. Da questi consulenti, specie in questo momento, dipende la vita di tutti di noi; non è pensabile che si possano seguire logiche di partito in queste scelte.