Fabbrica a Chicago, un investimento da 80 milioni di dollari, assunzioni e aumento della produzione. «Il Nordest? Non possiamo permetterci di restare fermi»
Chi vuole vedere il lato buono della crisi sostiene che nel suo meccanismo darwiniano di selezione dei più forti il Nordest, al tempo dello spread, lascerà ai nostri figli idee e uomini probabilmente migliori. Perché resteranno quelle (nuove) che hanno riacceso il suo genio, e le teste che l’hanno incarnato. Perché c’è un Veneto che non è fatto solo di fabbriche che chiudono o licenziano, di imprenditori che si ammazzano o si arrendono alla borbonica burocrazia (o la usano come alibi). Così come c’è un Veneto che non si chiude nel fortino degli autonomismi e del reclinamento identitario aspettando che la tempesta passi come se poi tutto tornasse come prima. Gianluca Rana, figlio del re del tortellino, Giovanni, è uno di questi. Una generazione di nuovi imprenditori o imprenditori di seconda generazione che ce la fanno, piccoli Archimede che innovano e altrettanti Marco Polo che vanno ad aprire nuovi mercati.
Veneti come quei migranti con la valigia di cartone che attraversavano l’oceano con il loro capitale di mani, oggi con quello dei cervelli. Per giocarsi la sua partita ha cambiato ruolo di gioco, è cambiato lui stesso, non si è lasciato cambiare. Una trasformazione che balza all’occhio con l’evidenza di un tratto. Gianluca Rana non è più l’imprenditore in gessato impeccabile che teneva le sue relazioni da presidente di Confindustria Verona epoca e stile Montezemolo, con la stessa eleganza con la quale nell’intercalare si passava le mani nei capelli fissando diritto i mille volti della sala. E tesseva relazioni e mediazioni nel suo ristorante al Tre Corone in piazza Bra. Oggi quel ristorante non c’è più. Il barone Malfatti, che dimora nei piani superiori del palazzo sanmicheliano del sedicesimo secolo che si affaccia sull’Arena dei romani e la Gran Guardia degli Asburgo, non ha rinnovato il contratto d’affitto, e la piazza che un tempo era uno dei più bei salotti della Mitteleuropa ha perso l’unico salotto buono (con ottima cucina) in un Liston conquistato per lo più da fast food e pizzerie per turisti. In compenso Rana di ristoranti ne ha aperti 28 in Italia e altri tra Londra e Madrid, la Svizzera e il Lussemburgo. E con essi esporta il suo brand e la sua immagine. Il sale ce lo mette la moglie Antonella, che si divide tra la corte del Feniletto, una piccola oasi non ancora antropizzata nella profonda campagna veronese, e New York.
L’altra metà del cielo, se così si può dire, il cielo dell’Atlantico lo passa con la stessa frequenza con cui prima dalla sua azienda a San Giovanni Lupatoto andava in macchina al suo ufficio di presidente degli imprenditori in piazza Cittadella, alle spalle di Palazzo Barbieri, da quasi sei anni retto dal sindaco leghista 2.0 Flavio Tosi. Ora Gianluca Rana si dedica completamente alla sua impresa, mutuando un’azienda che quando è nata parlava in dialetto, e ora è multilingue. Nel 2011 ha realizzato un fatturato di 374 milioni di euro, diventando leader nel settore della produzione e commercializzazione di prodotti alimentari freschi. «In effetti – come una volta ebbe a dire il padre Giovanni di suo figlio – se io regno lui governa». E Rana jr governa. Anche se in realtà, per dirla alla Shakespeare, più fuori dalle mura di Verona. Pur non essendone per la verità mai uscito. Non solo perchè qui ha il cuore della sua azienda (e della sua famiglia) ma anche perché nel frattempo gli industriali gli hanno affidato la presidenza della società editoriale che controlla il quotidiano storico della città, L’Arena, un giornale che fino ad oggi non è stato solo un giornale: in un certo senso una piccola Rai nella Verona- Paese.Maonestamente dobbiamo constatare che questo è solo un tassello di un quadro molto più grande, e che chiuso nella curva dell’Adige a Rana va stretto.Un quadro che se dovessimo immaginarlo avrebbe semplicemente un’immagine. Un uomo in corsa. Che non si guarda indietro.
E ti guarda con la faccia di chi pensa che fermarsi non sia salutare ma solo una perdita: di tempo. E un uomo in corsa (e in scarpe da tennis) è quello che si fionda dall’entrata a vetri della sua azienda per saltare d’un fiato nell’ascensore che lo porta al secondo piano, il suo ufficio. Niente abito «ne ho lasciati tre, a Chicago, appesi da mesi nel guardaroba, non li ho più usati» dice. Gianluca Rana arriva in tuta. Pensavamo fosse per lo jogging, «no – corregge con i suoi occhi sparati (gli stessi del padre) – vesto sempre così ». Nei corridoi e negli uffici del palazzone l’unica cravatta che abbiamo visto era desolatamente la nostra. Anni fa non era così. I manager seguono il suo stile. Il dress code è cambiato. E qui Marchionne non c’entra. «La verità – racconta lui, piantando la faccia sui nuovi capannoni che stanno spuntando alla destra della sua finestra – è che dobbiamo stare in prima linea» e lo dice in senso letterale. «Sì, io quando sono qui sto con loro, i ragazzi, nei reparti, davanti alla linea di produzione». Li chiama «ragazzi». «Appartenenti » direbbe Bruno Vianello, il leader di Texa che a Monastier nel Trevigiano ha appena raddoppiato la sua fabbrica leadermondiale nella diagnostica delle auto. Rana con Vianello, altro imprenditore del nuovo Veneto, ha in comune non solo l’instancabile auto-innovazione ma anche la visione della sua impresa «come comunità» parafrasando la Fornero quando loda quella parte di Nordest che ce la fa «e da cui l’Italia dovrebbe imparare », come ha detto all’ultimo taglio del nastro veneto tra Zaia e Tomat. La prima linea per Rana oggi è il sogno americano.
Se per sogno non intendiamo solo desideri ma soprattutto nuove opportunità, tanto per essere pragmatici. E’ lì infatti, dopo aver piantato bene i piedi nella vecchia Europa, oggi depressa, che l’industriale veronese ha messo la bandierina made in Veneto. Esattamente a Chicago. Due mondi, due modi, due tempi. Nel cuore dell’Illinois il gruppo ha aperto ora un nuovo stabilimento, per un investimento complessivo di oltre 80 milioni di dollari. Contemporaneamente ha ampliato, aprendo nuovi capannoni, la fabbrica con la sede storica nel Veronese, dove ha potenziato la produzione. Due modi. Basta digitare su google il nome del governatore Patt Quinn e quello di Rana per rendersene conto. Il primo che organizza conferenze stampa in cui esterna l’orgoglio americanoper aver convinto l’imprenditore italiano a investire nel suo Stato. Quanto al secondo, «siamostati agevolati in tutti i modi possibili – racconta Rana – a cominciare dalla burocrazia». Un gesto, un esempio. «Il governatore stesso ci ha lasciato il suo numero di cellulare. “Per qualsiasi problema chiamatemi pure” ci ha detto. In due parole: lì è lo Stato che chiede di aiutare l’imprenditore, non l’imprenditore che chiede aiuto allo Stato». Due tempi. «A Chicago ci sono voluti quattro giorni per avere i permessi, per ampliare l’azienda nel Veronese sette anni. Negli Usa in otto mesi avevo già costruito la fabbrica e iniziato a produrre».
Due mondi. Nello Stato americano il governo sconta dalle tasse i soldi investiti per aprire lo stabilimento e assumere operai. «Qui in Italia dobbiamo pagare la tassa sulla produttività, l’Irap. Mi spiega perchè un imprenditore dovrebbe investire in Italia?». Tempi, burocrazia, tasse: tre muri nel nostro Paese, tre opportunità all’estero. E’ una vecchia storia, che abbiamo sentito nelle tante storie di imprenditori che come Rana hanno vissuto sulla propria pelle le due velocità. «Sì, velocità. Metti i piedi fuori e ti sembra di volare. Perché prima ti sembrava di procedere con il freno tirato». E immaginare chi o cosa in Italia sta tirando quel freno non è difficile. «Le racconto un aneddoto che vale di più di tante tavole rotonde che siamo andati ad ascoltare. All’aeroporto di Orlando il tassista, un senegalese che mi sta portando in albergo, inizia a conversare con me. Mi racconta la sua storia, lui che decide di lasciare l’Africa per l’Italia, poi la scelta di venire pochi anni dopo negli Stati Uniti. Gli chiedo perché. E lui mi risponde in due parole. «Vede -mi dice abbozzando uno slang americano – nel vostro Paese bisogna essere troppo furbi per fare i soldi. Qui basta solo lavorare». Ecco perché anche agli imprenditori sembra di volare. «In realtà qui siamo semplicemente messi nelle condizioni di fare il nostro mestiere. Che in questomomento non è solo produrre, ma anche e soprattutto mettersi a confronto con noi stessi e aprirsi al mondo. Tutto il dibattito che leggo, da lontano, sugli autonomismi e le macroregioni, può capire, mi fanno sorridere. Qui il terreno non è chiudersi ma prendersi nuovi mercati. Quando i nostri ragazzi nell’Illinois hanno fatto partire la prima linea, fino a non volersi turnare perché “volevano esserci tutti”, sapete cosa mi hanno detto? “Qui noi facciamo la storia”. E la storia è guardare avanti, non voltarsi indietro».
Sulla scrivania, la felpa e il portafoto con i suoi due figli. Maria Sole e Giovanni. Sorride e poi riprende. «Dobbiamo costruire un futuro per loro. E non possiamo certo farlo standocene a casa in pantofole. Sia noi imprenditori, che loro, i giovani. Una madre un giorno mi ha telefonato chiedendomi se potevamo far finire prima il lavoro il venerdì, “perché la sera poi i ragazzi devono uscire”. C’è chi non ha capito che il mondo è cambiato, e quello in cui abbiamo vissuto fino ad oggi, la fabbrica, la città, la provincia, il Nordest, sono troppo piccoli». Mancano due ore, poi Rana jr ha l’aereo per Francoforte, scalo e poi diritto a Chicago. Come tutti i mesi da un anno, parte con la sua valigia e si ferma negli Usa per almeno una quindicina di giorni, per poi rientrare. Per poi ripartire. «Io, la mia famiglia, la mia azienda, siamo cittadini del mondo». Dice facendo un cerchio con le braccia. Si allaccia la scarpa da tennis e riaccende il palmare. Si alza e imbocca l’uscita. «Mi scusi – chiediamo – un’ultima domanda. Che fine ha fatto quel ragazzo del venerdì sera ..». Si ferma. Si volta indietro. «Non è in America a fare la storia» risponde. Qualcun altro sì.
Massimo Mamoli – Corriere del Veneto – 16 ottobre 2012©