Il primo a partire lancia in resta, durante la riunione della giunta di ieri, è stato Maurizio Conte, Ambiente. A ruota lo ha seguito Elena Donazzan, Istruzione. Poi è stato il turno di Massimo Giorgetti, Lavori pubblici. La domanda, tra l’inviperito e l’allibito, era per tutti la stessa: «Come puoi sostenere la legge Padrin? Quella ci fa fuori tutti!».
Al centro della scena, assediato dalla sua stessa squadra (ma forse a questo punto è un azzardo chiamarla così), il governatore Luca Zaia. In un climax che ha visto momenti di grande tensione e qualche urlo (Giorgetti ad un tratto si è alzato perfino in piedi), gli assessori hanno imputato al presidente di aver appoggiato la proposta di modifica della legge elettorale firmata dal capogruppo di Forza Italia Leonardo Padrin, quella che limitando retroattivamente a due i mandati dei consiglieri regionali, punta a lasciare a casa alle prossime elezioni 27 degli attuali 60 inquilini di Palazzo Ferro Fini, tra cui 8 assessori su 11. Una presa di posizione che i membri della giunta, e non solo quelli entrati apertamente in rotta di collisione col governatore, hanno vissuto come un tradimento personale, oltre che come un errore politico. «Attento – gli hanno intimato – noi possiamo contare su decine di migliaia di preferenze. Senza di noi rischi». Qualcuno si è preso anche la briga di contarle: tra assessori e consiglieri, con la legge Padrin la coalizione di centrodestra rimetterebbe in gioco oltre 263 mila voti, «e non è mica detto che tornino tutti indietro» fa notare sibillino un assessore, già al lavoro sul territorio. Stiamo parlando del 10% dei consensi del 2010.
Raccontano che Zaia avrebbe risposto dapprima sprezzante («Impara a leggere» avrebbe zittito un rivoltoso), quindi, sempre più nervoso, avrebbe negato con forza di aver mai dato il proprio assenso all’operazione Padrin, ricostruzione smentita però da tutti i partecipanti al summit di venerdì a Mestre: «Abbiamo chiesto più volte a Zaia come ci dobbiamo comportare isu questo punto e lui ci ha risposto che la legge va approvata perché è un segnale verso gli elettori, che in questo momento non si può fare altrimenti». Come se ne uscirà? Padrin, ovviamente, non arretra di un passo («Vado avanti») mentre in Forza Italia c’è già chi medita vendetta («Faremo di tutto perché non venga più ricandidato, così impara»). La maggioranza è a pezzi: «Impossibile dire come finirà, qua siamo alla guerra per bande» sbotta un consigliere mentre un altro ammette: «La verità è che sosteniamo tutti questa legge sperando che siano gli altri a bocciarla. E così rischiamo che venga approvata sul serio». Il caos traspare anche dalle parole col bilancino del capogruppo della Lega Federico Caner (al terzo mandato e dunque potenzialmente fuori), stretto tra il «suo» presidente ed il «suo» segretario, Flavio Tosi, che ha già affossato la legge Padrin definendola «una cosa senza senso»: «Io sono favorevole ma ci sono opinioni divergenti e più proposte in discussione in commissione. Vediamo il testo che approderà in aula e poi decideremo come comportarci». Pare che il cambio di rotta della pattuglia padana (non indolore, c’è pure chi attacca Tosi: «Ma non era per il rinnovamento? O vale solo per Gobbo e per Bossi ma non per i suoi?») sarebbe dovuto proprio ad una telefonata improvvisa partita da Palazzo Balbi. Si studiano ipotesi di insabbiamento ed un «piano B»: l’impugnazione di fronte alla Consulta per lesione del diritto all’elettorato passivo.
Tra le ipotesi di modifica della legge elettorale giacenti in commissione Statuto c’è anche quella del Ncd che prevede il ballottaggio stile sindaco qualora nessuno dei candidati presidente arrivi al 37%. Fantapolitica? A questo punto, tra soglie e doppie preferenze, nel Vietnam del consiglio tutto può accadere. E, raccontano, questo preoccuperebbe Zaia ben più dei due mandati.
Marco Bonet – IL Corriere del Veneto – 15 ottobre 2014