Con l’entrata in vigore del Regolamento numero 56-2013, firmato il 16 gennaio, l’Ue autorizza, a partire da giugno, l’utilizzo di farine animali provenienti dagli scarti di macellazione, denominate Pat (proteine animali trasformate) nei mangimi per l’allevamento suinicolo, avicolo e acquacoltura.
Dodici anni dopo la tragica storia della Bse, l’encefalite spongiforme bovina, più conosciuta con il nome di «mucca pazza», che portò al divieto assoluto da parte dell’Unione di utilizzare gli scarti di animali macellati come materia prima per i mangimi ad uso zootecnico, il nuovo regolamento segna un clamoroso dietrofront. Uno dei motivi che ha portato il legislatore europeo a questo ripensamento sta nella grande quantità di proteine consumate negli allevamenti zootecnici, di tutte le specie, che utilizzano farine provenienti da pesce selvatico. Ora, fermo restando la lodevole e condivisibile azione dell’Unione, che con questo provvedimento interviene sulla annosa questione della gestione delle risorse di pesca e considerando anche la assoluta mancanza di problemi di sicurezza alimentare, visto che le farine saranno prodotte da scarti trattati ad alta temperatura, sterilizzati e disidratati, bisogna vedere se il sistema pubblico e le stesse filiere di produzione siano effettivamente in grado di garantire i controlli, sia in materia sanitaria che sul rispetto e la tracciabilità degli scarti. Sicuramente l’ultimo scandalo relativo all’utilizzo di carne di cavallo di dubbia provenienza, ritrovato in lasagne che dichiaravano l’utilizzo di sola carne bovina, genera perplessità sulla effettiva validità di questo regolamento. I produttori hanno accolto con molto favore la proposta, visto l’elevato costo delle farine di pesce e vedendo, nell’utilizzo di farine provenienti da scarto, la possibilità di aumentare i propri guadagni, ma chi garantirà il consumatore? Ne parleremo a Slow Fish (Genova, Porto Antico, 9-12 maggio), nell’incontro intitolato: «Quando il pesce diventa mangime» che si terrà il 12 maggio alle 16.