La Corte conti boccia la riforma della dirigenza pubblica contenuta nel ddl Madia. La delega «accresce i margini di discrezionalità nel conferimento degli incarichi» e rischia di sacrificare l’autonomia dei dirigenti. La creazione del ruolo unico, l’abolizione dell’attuale articolazione in due fasce, la brreve durata degli incarichi attribuiti, il rischio che il mancato conferimento di una funzione possa provocare la decadenza del rapporto sono tutti elementi che, secondo la magistratura contabile potrebbero limitare l’idipendenza dei manager. In auduzione davanti alla commissione Affari costituzionali del Senato, il presidente Raffaele Squitieri punta il dito contro uno dei punti più qualificanti del disegno di legge di riforma della Pa, ossia quel ruolo unico della dirigenza pubblica già sperimentato nelle statali con esiti non del tutto positivi tra il 1998 e il 2002.
A preoccupare Squitieri è l’assenza nel Ddl Madia di un punto di equilibrio tra l’esigenza di assicurare la flessibilità dei modelli organizzativi e la salvaguardia di un’effettiva autonomia dei dirigenti nei confronti del potere politico.
Dall’introduzione della “fascia unica”, prevista dal disegno di legge delega sulla riforma della pa, “non potranno che derivare maggiori costi a regime, con riferimento all’ammontare dei trattamenti”, per gli assunti con i nuovi concorsi. A rilevarlo la Corte dei conti, nel documento depositato in commissione Affari costituzionali del Senato in occasione dell’audizione sulla riforma della pa. Insomma: il superamento delle attuali due fasce (il limite massimo di 240mila euro in busta paga vale ora, in base al decreto sulla pa firmato dal ministro Marianna Madia, per la prima fascia, cioè i capi dipartimento) non comporta alcun risparmio ma anzi esborsi superiori a quelli attuali. Non solo: secondo la magistratura contabile suscita ”perplessità” la previsione che la retribuzione di risultato non possa superare il 15% del totale degli emolumenti. Oggi, ricorda la Corte, ammonta al 30% della retribuzione complessiva. Il criterio contenuto nella delega, quindi, “appare in controtendenza rispetto alla più volte enunciata necessità di correlare una parte congrua del trattamento economico al raggiungimento di obiettivi prefissati”.
Versante economico a parte, il presidente della Corte Raffaele Squitieri, audito sulla riforma, ha sottolineato che il testo ”aumenta i margini di discrezionalità per il conferimento degli incarichi”, portando a un “insieme di elementi che potrebbero sacrificare l’autonomia dei dirigenti” e non garantisce equilibrio tra “indirizzo politico e attività gestionale” della dirigenza pubblica. La discrezionalità è “solo in parte temperata dalla previsione di requisiti legati alla particolare complessità degli uffici e al grado di responsabilità che i dirigenti sono chiamati ad assumere”. E sull’autonomia potrebbero pesare anche ”la breve durata degli incarichi attribuiti e il rischio che il mancato conferimento di una funzione possa provocare la decadenza del rapporto di lavoro”. Per di più, ha rincarato Squitieri, “i criteri direttivi della riforma delineano un modello ordinamentale che privilegia, per il conferimento della titolarità di uffici anche di piccole dimensioni, non già il possesso di competenze specifiche legate alla conoscenza della complessa normativa dei settori di intervento, quanto il possesso di competenze manageriali che, come l’esperienza ha dimostrato, risultano di limitata applicabilità nell’ordinamento amministrativo”.
Più in generale, la delega sulla riforma della pubblica amministrazione è ”coraggiosa” ma in alcuni capitoli andrebbe “meglio calibrata”, perché pecca di ”genericità”. I margini per il riordino della disciplina delle partecipazioni azionarie degli enti pubblici, per esempio, “appaiono molto ampi e non facilmente delimitabili”. E non si giustifica la limitazione del riordino alle società per azioni: l’intervento andrebbe esteso ”a tutto il complesso mondo delle interessenze patrimoniali detenute dalle amministrazioni pubbliche”. Andrebbe inoltre fatta una distinzione tra tipi di soggetti partecipati “in relazione alle attività svolte e agli interessi pubblici di riferimento, con individuazione della relativa disciplina, stabilendo il relazione al tipo di società la portata delle deroghe rispetto alla disciplina privatistica”.
Altre osservazioni riguardano poi le norme sulla trasparenza, l’incompatibilità e gli obblighi in materia di prevenzione della corruzione. L’articolo 6 del ddl dispone che “siano ridotti e concentrati gli oneri gravanti in capo alle amministrazioni pubbliche”. Una previsione, scrive la Corte, che “sembra obbedire alla necessità di ridurre i cosiddetti oneri burocratici derivanti dalle nuove norme anticorruzione”, in seguito “rilievi mossi da più parti” riguardo “alla numerosità degli adempimenti introdotti dalle norme in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza”. I magistrati contabili, “pur comprendendo la necessità di una revisione in materia”, ribadiscono “la necessità di adeguare le misure di prevenzione della corruzione a quelle degli standard ormai consolidati in altri Paesi”. (tratto da ItaliaOggi e Il Fatto quotidiano)
Il testo della audizione della Corte dei Conti sul Ddl Pa
Il commento
di Roberto Turno, il Sole 24 Ore sanità. Non ne perde una, la magistratura contabile. E tra promozioni virtuali – servizi digitalizzati, in genere lo spirito riformatore (annunciato) – e puntuali contestazioni, spiega in toni soft ma decisi cosa va e cosa non va nella delega per la riforma della Pa presentata da Matteo Renzi in Parlamento, ora all’esame della commissione Affari costituzionali.
Tra i tanti punti messi all’indice, quello della riforma della dirigenza pubblica. Bella a raccontarsi, meno bella forse in quelli che potrebbero essere i rischi in agguato. Spiega la Corte dei conti: la riforma «aumenta i margini di discrezionalità per il conferimento degli incarichi: una discrezionalità – aggiunge – solo in parte temperata dalla previsione di requisiti legati alla particolare complessità degli uffici e di grado di responsabilità che i dirigenti sono chiamati ad assumere». E ancora: «L’abolizione della distinzione in fasce, l’ampliamento della platea degli interessati, la breve durata degli incarichi attribuiti, il rischio che il mancato conferimento di una funzione possa provocare la decadenza dal rapporto di lavoro, costituiscono un insieme di elementi che potrebbero sacrificare l’autonomia della dirigenza». Parole chiarissime. Una bordata in piena regola al peso soverchiante che la politica viole conservare, anzi accrescere.
Con un altro carico da novanta, se non bastasse. Scrive la Corte dei conti nella sua relazione al Parlamento: «Senza entrare nel merito di una scelta esclusivamente politica, i criteri direttivi della riforma delineano un assetto ordinamentale che privilegia per il conferimento della titolarità di uffici anche di piccole dimensioni, non già il possesso di competenze specifiche legate alla conoscenza della complessa normativa dei settori di intervento, quanto il possesso di competenze manageriali che, come l’esperienza ha dimostrato, risultano di limitata applicabilità nell’ordinamento amministrativo». Altro che managerialità, insomma. Vecchia casta dei burocrati che resiste, o una messa in guardia al Governo a non vendere troppo fumo? Certo Renzi non gradirà le parole della Corte dei conti.
10 ottobre 2014