Gianni Trovati. Non è facile, ma in un quadro come l’attuale che con il possibile effetto-Brexit sul Pil torna a sollevare incognite importanti sulla finanza pubblica bisogna trovare la concentrazione per accelerare anche sulle riforme che sembrano laterali rispetto all’emergenza, ma che puntano a dare più chance all’economia del Paese.
In questo contesto, la riforma della Pubblica amministrazione è arrivata a uno snodo cruciale; il Parlamento sta chiudendo i suoi lavori sulla riforma delle partecipate, in vista dell’approvazione definitiva in consiglio dei ministri, e nei prossimi giorni dovrebbe partire il confronto ufficiale sulla mossa congiunta rappresentata dalle nuove regole sul pubblico impiego e dalla trattativa sui contratti. Su entrambi i terreni, gli obiettivi viaggiano sulle stesse parole d’ordine dello snellimento di un sistema pubblico rivelatosi troppo ingessato, ma simili sono anche i rischi.
Su pubblico impiego e società partecipate si gioca un pezzo importante dell’immagine dell’intera riforma, ed è facile la tentazione, sia per il governo sia per i sindacati che nel cantiere delle nuove regole devono scaricare la tensione accumulata negli anni del congelamento dei contratti, di badare troppo al risultato politico sacrificando qualche intervento di buon senso sul piano operativo.
La riforma delle società pubbliche sconta il fatto di essere nata su uno slogan, la riduzione «da 8mila a mille», che non tiene conto del numero reale delle partecipate oggi in campo (anche perché nessuno lo conosce, e ogni monitoraggio ne restituisce una cifra diversa) e non si basa su un’analisi effettiva di quale sia la dimensione davvero ottimale per le aziende pubbliche. L’obiettivo però è evidente, punta a ridurre in modo sensibile la «giungla» delle società pubbliche di cottarelliana memoria, e promette di scontrarsi con le tante resistenze nazionali e locali che finora hanno depotenziato ogni tentativo di liberalizzazione.
Se queste sono le premesse, va dato atto al Parlamento di non aver ceduto alle spinte di chi vuole far sopravvivere il gruppone delle partecipate anche a questa tornata.
Certo, le richieste di allentare questo o quel vincolo non mancano, a partire dalle soglie minime di fatturato che dovrebbero giustificare l’esistenza in vita delle società. Il tutto, però, è accompagnato dall’idea di differenziare le regole a seconda delle situazioni concrete, stringendo di più dove si rimane ancorati ai vecchi affidamenti diretti e premiando le realtà dove invece si fa strada l’affidamento con gara.
La radiografia del Parlamento, insieme a quella proposta dal Consiglio di Stato, hanno in ogni caso il merito di evidenziare alcuni passaggi oggettivamente deboli nel nuovo testo unico. Il più delicato è quello sulla gestione degli esuberi che potrebbero crearsi sia con le alienazioni delle partecipate sia con i piani di riordino del personale nelle aziende che sopravvivono. Il meccanismo degli elenchi nazionali tenuti dalla Funzione pubblica, e accompagnati dal blocco delle assunzioni “alternative”, ha mostrato più di una difficoltà quando si è trattato di riorganizzare le Province, cioè 86 realtà (nell’Italia a Statuto ordinario)?tutte pubbliche e organizzate allo stesso modo. Trasferito fra le società, che sono migliaia e hanno contratti di diritto privato, rischia di saltare, determinando un problema sociale e offrendo ottimi argomenti ai tifosi dello status quo. I?decreti già approvati in via definitiva, dalla trasparenza alla Scia fino alla Conferenza dei servizi, hanno mostrato che il confronto fra governo, parlamento e giudici amministrativi può migliorare i testi.
Ora è importante replicare questo metodo anche sugli snodi più politicamente delicati della riforma. Anche se non è facile.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 28 giugno 2016