L’assoluzione nel giudizio penale non travolge automaticamente il processo civile avviato per la richiesta del risarcimento del danno. Infatti, i due procedimenti viaggiano su binari paralleli e non convergenti, a eccezione del caso in cui il giudice penale accerti che il fatto non si è verificato o che il presunto autore non ha in realtà preso parte all’azione.
Invece, quando il giudice penale accerta i fatti ma assolve l’imputato perché le prove assunte nel procedimento penale non gli consentano di ritenerlo in colpa «oltre ogni ragionevole dubbio», il giudice civile potrà valutare diversamente le prove a propria discrezione.
Lo ha ricordato la Cassazione che, con la sentenza 25538 del 13 novembre, ha respinto il ricorso di un uomo contro la sentenza di appello che lo condannava al risarcimento del danno a favore del conducente, del trasportato e del proprietario di un ciclomotore con cui si era scontrato mentre era al volante della sua auto. Nel dettaglio, secondo l’uomo condannato al risarcimento del danno, la Corte d’appello avrebbe ignorato il fatto che il conducente era stato assolto nel procedimento penale con la formula «il fatto non costituisce reato».
I giudici di legittimità hanno precisato che tra l’azione civile e quella penale non vi è una correlazione diretta tra pronunciamenti, né comune valutazione degli elementi istruttori acquisiti nei rispettivi procedimenti. Questo perché, si legge nella decisione, l’accertamento contenuto in una sentenza penale di assoluzione pronunciata perché il fatto non costituisce reato non ha efficacia di giudicato nel processo civile successivo nel quale compete sempre al giudice il potere di accertare autonomamente i fatti dedotti in giudizio e di arrivare – come è accaduto nel caso esaminato – a conclusioni anche differenti dal tribunale penale.
Si tratta di una situazione solo all’apparenza contraddittoria, perché il nostro ordinamento ammette che in un contesto penale vi può essere una maggiore ricerca della prova di colpevolezza (a tutela dell’indagato che verrà condannato solo in presenza di comportamenti gravi), mentre nel processo civile può essere adottato un maggior parametro di severità verso la condotta dell’autore dell’illecito, portandolo a condanna pur a fronte della assoluzione nel rito penale. È una scelta di diritto sostanziale che il nostro sistema ha adottato, privilegiando la componente risarcitoria dell’illecito, rispetto a quella strettamente punitiva del contesto penale.
Inoltre, la sentenza 25538 della Cassazione ha affrontato anche il tema della prescrizione del diritto al risarcimento del danno. Infatti, l’automobilista, nel suo ricorso, ha lamentato anche che la sentenza di merito fosse errata perché non ha accolto l’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento del danno in sede civile.
La Cassazione ha respinto anche questo motivo del ricorso, richiamando il proprio consolidato orientamento per il quale, in base all’articolo 2947 del Codice civile, il termine di prescrizione è in generale di due anni per i sinistri stradali; ma, in base al comma 3 dello stesso articolo 2947, se il fatto è considerato dalla legge come reato (in questo caso lesioni colpose) e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile.
Né vale a escludere questa estensione il fatto che sia intervenuta una sentenza di assoluzione perché «il fatto non costituisce reato». Secondo la Cassazione, infatti, l’articolo 2947, comma 3, del Codice civile si riferisce a tutte le sentenze penali irrevocabili, senza distinzioni tra quelle di condanna e quelle di proscioglimento, facendo decorrere il termine della prescrizione biennale dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile. In questo caso, dunque, dato che si applica la prescrizione più lunga prevista dal reato di lesioni colpose, secondo la Cassazione il tribunale ha correttamente condannato l’autore del l’illecito al risarcimento del danno.
Il Sole24 Ore – 25 novembre 2013