Di Claudio Forleo. Da qualche mese gli italiani hanno saputo dell’esistenza di una strana sigla: TTIP. Gli è stato spiegato che questo Transatlantic Trade and Investment Partnership, un accordo sul commercio e per gli investimenti tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea, potrebbe cambiargli la vita. Non è stato chiarito se in senso positivo o meno. Alle preoccupazioni di chi denuncia il cambiamento delle regole sulla sicurezza alimentare, l’invasione di prodotti transgenici (la cui coltivazione è vietata in Italia) o ricchi di anabolizzanti, la scomparsa del mai salvaguardato Made in Italy, si oppongono le rassicurazioni di chi esalta le ricadute economiche di un accordo, provando a spegnere il fuoco di dubbi legittimi. La divisione tra apocalittici e integrati, per usare una vecchia definizione sulla cultura di massa, resterà tale fino a quando l’accordo verrà reso pubblico. Sempre che un accordo si trovi.
È stato reso noto il mandato che fissa i paletti entro cui il negoziatori si muovono. I colloqui per l’Europa sono condotti dalla direzione generale commercio della Commissione europea guidata da Cecilia Mallström, membro della commissione Juncker. L’accordo sul testo dovrà essere votato dal Parlamento Europeo.
A rendere il tema terreno fertile per le polemiche è l’oggettivo deficit di conoscenza: l’iniziale mancanza di informazioni sull’argomento (su cui l’Europa ha fatto ammenda), dovuta alla segretezza dei negoziati, si unisce al ritardo con cui qui da noi è iniziato il dibattito. Mentre in Italia le Europee del 2014 sono state il solito teatrino interno, i vicini francesi o tedeschi si ponevano già il problema dell’accordo con gli USA. La puntata di Report dello scorso ottobre (cui hanno preso parte anche i veterinari pubblici veneti) ha centrato l’obiettivo di porre la questione TTIP di fronte all’opinione pubblica.
NUMERI
Dazi doganali, semplificazione normative, accesso al mercato in relazione a merci, servizi, investimenti e appalti pubblici. Il TTIP coinvolge oltre 800 milioni di cittadini e due economie (Stati Uniti ed Unione Europea) il cui PIL complessivo corrisponde alla metà di quello mondiale. Quello che ci interessa ora è il possibile impatto sul comparto agroalimentare in Italia, la cui filiera vale circa 250 miliardi di euro, il 15% del PIL.
NORMATIVE E VISIONI CONTRAPPOSTE, CHI SI ADEGUA A CHI?
I fautori del TTIP snocciolano numeri: chiudere l’accordo comporterebbe un aumento annuo di mezzo punto del PIL europeo, raddoppierebbero le esportazioni verso gli Stati Uniti, salirebbe il potere di acquisto delle famiglie per l’effetto combinato della riduzione dei prezzi – aumento degli stipendi. Una manna per il Vecchio Continente, ancora alla ricerca di un’uscita sicura dalla crisi, importata proprio dagli Stati Uniti.
Ci si chiede: cosa offriamo in cambio? C’è un conto da pagare?
Il timore, espresso anche da numerosi rappresentanti di categoria del settore alimentare, è che per incassare qualche punto di PIL rinunceremo alla qualità dei nostri alimenti, ai controlli e alle regole che ci siamo dati, le cosiddette barriere non tariffarie (qui uno studio del Parlamento Europeo sui possibili impatti macroeconomici del TTIP). Finendo forse per rinunciare definitivamente alla qualità che sta dietro il Made in Italy.
L’approccio nel settore alimentare di Stati Uniti ed Europa non potrebbe essere più diverso. Nel Vecchio Continente vige il cosiddetto principio di precauzione. Di fronte ad un rischio per la salute umana e ambientale, in cui i dati scientifici non consentono di valutare a fondo l’entità del rischio, viene impedita la distribuzione, la consumazione o predisposto il ritiro di prodotti potenzialmente pericolosi. Negli Stati Uniti il principio è capovolto. Il prodotto non fa male fino a prova contraria, dunque viene commercializzato fino a che i dati scientifici non ne dimostrano la nocività.
Chi si adegua a chi? È possibile un compromesso tra due approcci così diversi? E se l’Europa, come dice, non cederà su questo punto, per quale motivo dovrebbero essere gli USA a farlo?
Non c’è solo la visione a dividere i due Continenti, quanto il modo di fare agricoltura. Coltivazione di OGM, utilizzo o abuso di ormoni e antibiotici sul bestiame, etichettatura degli alimenti che finiscono nei supermercati.
ORMONI E ANTIBIOTICI
Negli Stati Uniti è tutto intensivo, teso alla massima resa, al massimo profitto. Il bestiame produce più carne, il terreno più raccolto, i prezzi sono più bassi e più competitivi. Ma la qualità? I rischi per la salute? Le statistiche dicono molto: il CDC stima come ogni anno circa 128mila americani finiscano in ospedale per intossicazioni alimentari, i decessi sono 3mila. L’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) nel 2012 contabilizzava 5mila ricoveri e 41 morti.
In Europa il trattamento con anabolizzanti del bestiame è vietato ma chi aggira le regole, in nome di una maggiore competitività sul mercato, esiste. Il pericolo della contaminazione dell’uomo nel passaggio dal piatto allo stomaco è presente anche per gli antibiotici, con il possibile sviluppo da parte dell’organismo di quella che viene chiamata antibiotico resistenza.
OGM
Discorso più complesso sugli OGM, considerati con sospetto dall’opinione pubblica. (qui alcune risposte sul ruolo dell’EFSA nella valutazione del rischio). Negli Stati Uniti gli ettari di colture transgeniche o biotecnologiche nel 2013 superavano i 70 milioni (mais, soia, cotone, colza, barbabietola da zucchero, papaia, zucchina). Nuove autorizzazioni sono state approvate di recente.
A gennaio il Parlamento europeo ha approvato una riforma che dà liberta di scelta ai singoli paesi membri. I governi nazionali possono vietare la coltivazione di nuovi OGM, indipendentemente dal parere della Commissione Europea. Ogni paese ha una propria linea: dai favorevoli (Spagna e Regno Unito), agli scettici (Francia e Germania). Il fronte ambientalista teme che il voto sia un ‘cavallo di Troia’ che consentirà alle lobby di fare pressione sui singoli governi per modificare l’impianto legislativo.
La normativa italiana non consente la coltivazione di prodotti OGM sul nostro territorio, ma non è esclusa la commercializzazione, con obbligo di riportarne in etichetta la presenza se supera lo 0.9%. È un’altra differenza con la legislazione americana. Sia l’opinione pubblica USA che quella italiana tendono a preferire i prodotti biologici, ma gli standard di presentazione del prodotto al cliente qui da noi sono più elevati che negli Stati Uniti. Più complicata in taluni casi l’intera tracciabilità della filiera, dato che la soia o i cereali OGM importati dagli USA soddisfano il fabbisogno degli allevamenti europei e finiscono per arrivare nel mangime degli animali.
È infinita la polemica sugli effetti della coltivazione transgenica, in particolare sulla possibile contaminazione delle altre colture OGM free, e sull’economicità delle stesse. C’è una maggiore resa, ma i costi iniziano a lievitare nel momento in cui viene sviluppata resistenza agli erbicidi o agli antibiotici. Infine il capitolo legato alla biodiversità, nel momento in cui il profitto rischia di ‘imporre’ l’utilizzo determinante sementi per tutti, finendo per mettere da parte le eccellenze e le particolarità locali.
SEGRETEZZA E MANDATO NEGOZIALE
Una delle principali critiche che viene mossa al TTIP è la segretezza dei negoziati, iniziati nel 2013. Se la uniamo alla mole degli interessi economici e al ruolo di lobby e multinazionali del settore agroalimentare, tese naturalmente al profitto e poco sensibili alle perplessità sollevate, il quadro diventa sempre meno cristallino.
I pochi politici italiani che masticano l’argomento, ma soprattutto quelli europei, ribadiscono che non ci sarà alcuna omologazione verso il basso degli attuali standard. Di fronte alla richiesta di maggiore trasparenza, sostenuta anche dal commissario Mallström , sono state pubblicate proprio dalla Commissione UE delle rassicurazioni importanti in tal senso, come questa.
“It’s not true that EU rules are always stricter. Both the US and the EU have made it equally clear that TTIP will not change existing food safety rules. The EU will keep its restrictions on hormones or growth promoters in livestock farming just as the US will keep its rules on microbial contaminants…. Growing genetically modified organisms is subject to an authorisation process in line with EU law. TTIP will not change this law. EU countries must also agree to any growing of GM plants. This will not change through TTIP…. “
L’Unione Europea garantisce che non cederà sul fronte delle regole relative alle restrizioni sugli ormoni e seguirà il diritto comunitario in merito agli OGM.
Restano comunque sul piatto, è il caso di dirlo, tutte le preoccupazioni di chi teme dei colpi di mano contrari alle promesse. Mantenere gli attuali standard, conservare il principio di precauzione, significa limitare l’accesso a numerosi prodotti statunitensi.
ETICHETTATURA E MADE IN ITALY
La difesa del made in Italy è un altro punto controverso. Già oggi non riusciamo a difendere i nostri prodotti dalla concorrenza sleale di chi all’estero spaccia per “italiano” l’alimento che commercia. Esportiamo circa un quinto di quanto produciamo nel settore agroalimentare, meno di altri paesi europei che non possono contare sulla nostra qualità. Quello che non va sono i 60 miliardi di euro che paghiamo ogni anno come tassa, sotto forma di mancati introiti, ai falsi prodotti italiani venduti all’estero, il doppio del valore delle esportazioni nel settore agroalimentare (34 miliardi di euro nel 2014)
I consumatori americani vorrebbero alimenti italiani, ma finiscono per acquistare prodotti che non lo sono, venduti da colossi del settore che non hanno alcun interesse a cambiare verso a questo andazzo, TTIP o meno. Paolo De Castro, relatore del Parlamento europeo per gli aspetti agroalimentari del TTIP, ha spiegato in audizione alla Camera che esistono tre tipi di imitazione: copie registrate di prodotti tipici, copie con marchio non registrato e imitazioni tramite assonanze dei nomi ed elementi grafici delle confezioni, il cosiddetto italian sounding.
Intervistato da Eunews in relazione al TTIP ha risposto: “Per le prime due, a mio avviso, è possibile individuare delle soluzioni all’interno del negoziato. Lo abbiamo fatto nell’accordo tra Ue e Canada, e speriamo che gli Stati Uniti abbiano la stessa sensibilità del Canada. Altra cosa sono invece le evocazioni, per le quali il problema è molto più complesso e richiede, se mai ne saremo capaci, di convincere gli Stati Uniti ad adottare sistemi di etichettatura più chiara, contrassegnando l’imitazione con un marchio ‘made in Usa’ per chiarire al consumatore americano che non si tratta di un prodotto francese, spagnolo o italiano”.
“Sistemi di etichettatura più chiara” una barriera che sarà difficile da superare negli Stati Uniti e che ha sollevato polemiche anche in Italia.
A dicembre è entrato in vigore il nuovo regolamento europeo (1169 del 2011) sull’etichettatura dei prodotti alimentari, superando il decreto legislativo 109 del 1992 che imponeva l’obbligo di indicazione dello stabilimento di produzione.
Nel nuovo regolamento, accanto ad alcune migliorie sulla dicitura degli ingredienti che renderanno più facile al consumatore capire cosa contiene quel prodotto, c’è la falla dello stabilimento di produzione: l’obbligo non viene previsto, la presenza diventa facoltativa. Resta invece il cosiddetto codice di lotto per la tracciabilità dell’alimento in caso di contaminazioni. Come ogni regolamento che si ‘rispetti’ anche il decreto del 1992 veniva ignorato da numerosi prodotti presenti sugli scaffali dei supermercati. Ma ora la falla trasforma le violazioni in un liberi tutti per i marchi che sfruttano l’italian sounding.
Un danno che si sarebbe potuto evitare con una notifica alla Commissione Europea dell’obbligatorietà, ma il governo è mancato su questo fronte. È stata presentata una formale interrogazione dal Movimento Cinque Stelle. Il sottosegretario dello Sviluppo Economico Claudio De Vincenti ha alzato le mani: “Occorre una specifica norma di legge o una delega al governo in materia di etichettatura. In tale contesto non appare possibile adottare i provvedimenti richiesti nell’interpellanza urgente in esame, per assenza, appunto, di una fonte primaria che li preveda”. Vale a dire, si vedrà.
Già prima dell’entrata in vigore del nuovo regolamento Raffaele Brogna di Io leggo l’etichetta ha lanciato una petizione per la reintroduzione dell’obbligo. Lo scorso 11 febbraio il MISE (Ministero dello Sviluppo Economico) ha pubblicato un comunicato congiunto con i Ministeri della Salute e delle Politiche Agricole: “I partecipanti all’unanimità hanno confermato l’importanza dell’indicazione della sede dello stabilimento di produzione nell’etichetta e hanno condiviso l’opportunità di verificare presso l’Unione europea un percorso in grado di assicurare la sua obbligatorietà anche a livello nazionale in un quadro di certezza e stabilità giuridica per le imprese”.
Tutti gettano acqua sul fuoco, l’Europa sul TTIP, il governo sul problema etichettatura. Questioni e decisioni che non trovano particolare spazio nè sui giornali nè in televisione, ma che coinvolgono la vita delle persone e l’economia del paese. Per quanto riguarda il settore agroalimentare non si vede come USA e Unione Europea possano raggiungere una sintesi che consenta alla Commissione di mantenere le promesse fatte sugli standard alimentari. A questo punto, direbbe qualcuno, la domanda nasce spontanea. Può esistere un TTIP senza abbattimento totale o parziale delle cosiddette barriere non tariffarie? L’aumento dei posti di lavoro in Europa, spiegano anche a Bruxelles, dipenderà dal significativo aumento delle esportazioni verso gli Stati Uniti, effetto di un altro abbattimento, quello dei dazi. Gli USA spalancarebbero le porte alle merci europee se l’Europa non dovesse fare altrettanto sull’agroalimentare statunitense?
LA ‘MINACCIA’ DELL’ISDS
Capitolo a parte merita l’ISDS, Investor State Dispute Settlement, ‘tribunali’ a cui possono rivolgersi Stati o aziende che sentono minacciati i loro interessi in terra straniera. È un meccanismo di scudo diplomatico (per gli Stati) e per le imprese (in relazione ai propri investimenti). Clausole nate per consentire all’azienda straniera di salvaguardarsi dal ‘protezionismo’ della nazione ospitante, o dalle espropriazioni di regimi dittatoriali, sono proliferate in molti trattati commerciali degli ultimi anni. Ma sono diventate anche una potenziale arma in mano alle multinazionali che rischiano di limitare la sovranità dei paesi ospitanti, in tema di leggi su sicurezza, salute e ambiente. E per bypassare i tribunali nazionali, con la motivazione dell’eccessiva lentezza con cui arrivano a emettere sentenza.
Ci sarà una clausola ISDS anche nel TTIP? In seno all’Europa c’è divisione sull’argomento, con la Germania nettamente contraria, nonostante abbia utilizzato più volte le medesime clausole nei suoi accordi commerciali. È previsto anche nell’accordo firmato con il Canada a giugno, con i tedeschi che questa estate avevano minacciato voto contrario in sede di deliberazione al Parlamento Europeo. Subito dopo la nomina a presidente della Commissione UE, Jean Claude Juncker si era dichiarato contrario all’ISDS.
A settembre Cecilia Malmstrom è stato ambigua sul punto. “La Commissione ha deciso di congelare questo capitolo. Il Presidente Juncker si è impegnato a non accettare che la competenza dei tribunali degli Stati membri dell’Ue sia limitata da regimi speciali per le controversie degli investitori. Non c’è dubbio che come commissaria io terrei fede a questo impegno”. Quando gli venne chiesto di fare marcia indietro anche con il Canada la commissaria ha risposto: “Non possiamo togliere la clausola perchè riaprirebbe tutto l’accordo, che è un ottimo accordo. Ma non significa che sarà automaticamente inclusa anche nell’accordo con gli Stati Uniti. La questione è sul tavolo e va affrontata”.
L’Unione Europea ha lanciato lo scorso anno una consultazione “sulla protezione degli investimenti e sulla composizione delle controversie tra investitori e Stato (ISDS)”. Lo scorso 13 gennaio la Commissione ha presentato una relazione sulle oltre 150mila risposte raccolte, da cui emerge “un notevole scetticismo nei confronti dello strumento ISDS – le parole utilizzate dalla Malmstrom – Dobbiamo intavolare una discussione aperta e franca sulla protezione degli investimenti e sull’ISDS nell’ambito della TTIP con i governi dell’UE, con il Parlamento europeo e con la società civile prima di varare qualsiasi raccomandazione politica in questo ambito. Questo sarà il primissimo passo da compiere in seguito alla pubblicazione di questa relazione. Dobbiamo inoltre riflettere sul modo per tener conto del fatto che i paesi dell’UE hanno già in vigore 1400 accordi bilaterali di questo tipo, alcuni dei quali risalgono agli anni ’50. Questi vecchi accordi devono essere sostituiti da disposizioni riformate, moderne… La grande maggioranza di questi accordi non comprende il tipo di garanzie che l’UE auspicherebbe. Intendo esser chiara… La Commissione europea non prenderebbe nemmeno in considerazione un accordo che abbassasse i nostri standard o limitasse il diritto dei nostri governi di regolamentare. Neanche gli Stati membri dell’UE, né il Parlamento europeo lo accetterebbero”.
http://it.ibtimes.com – International business times – 22 febbraio 2015