di Renato Balduzzi*. Riformare il nostro bicameralismo cosiddetto perfetto, cioè assolutamente paritario, in cui entrambe le Camere concedono e revocano la fiducia al Governo e concorrono in forme e modi pressoché identici alla legislazione, è obiettivo riformatore da molti decenni, e dunque non sarebbe ragionevole criticare la revisione costituzionale in corso per il fatto di volerlo finalmente raggiungere.
Semmai il problema è come farlo senza ridurre il tasso di democraticità del sistema, anzi rendendo il Parlamento ancora più rappresentativo della vitalità e della ricchezza del tessuto economico e sociale del nostro Paese.
Le proposte possibili erano molte: l’aver liquidato senza troppa attenzione le soluzioni miranti a comporre la seconda Camera non soltanto con rappresentanti delle autonomie territoriali, ma anche con esponenti delle cosiddette autonomie funzionali (camere di commercio, università e scuole, ordini professionali), non ha giovato a quell’allargamento e riqualificazione della rappresentanza parlamentare che costituisce una delle necessità delle società democratiche contemporanee.
All’interno di quella che potremmo chiamare la “questione rappresentativa” si collocano il rapporto centro-periferie e in particolare il mantenimento dello Stato regionale e autonomistico disegnato nella Costituzione del 1948 e ulteriormente rafforzato nella revisione costituzionale del 2001.
Che alcune scelte del 2001 vadano riviste e che in particolare occorra riportare alla competenza statale talune materie troppo frettolosamente demandate allora alle Regioni (un esempio per tutte: il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario) è opinione largamente condivisa, sulla scia della stessa giurisprudenza costituzionale. L’importante però è non ripetere quell’errore e dunque individuare correttamente le cause dell’insoddisfacente funzionamento del nostro sistema regionale e autonomistico e apportarvi i necessari e appropriati correttivi.
E proprio qui sta il punto. Si sono imputate la confusione e l’incertezza nel riparto di competenze tra Stato e Regioni alla previsione costituzionale delle materie di legislazione concorrente (allo Stato i soli princìpi fondamentali della materia, il resto alle Regioni), considerata la principale causa del contenzioso costituzionale. L’analisi è sommaria e imprecisa: l’esame della giurisprudenza costituzionale mostra che il contenzioso sta ormai fuori dalle materie concorrenti (salvo il già menzionato coordinamento della finanza pubblica) e che invece riguarda proprio l’elenco delle materie di competenza esclusiva statale e, per rimbalzo, quelle attualmente affidate in via residuale alle Regioni.
Il campo sanitario bene esemplifica quanto sin qui osservato. La “tutela della salute”, attualmente inclusa nella legislazione concorrente quale evoluzione dell’originaria competenza in tema di assistenza sanitaria e ospedaliera (analogamente per la “tutela e sicurezza del lavoro” e per l'”alimentazione”), ha cessato da tempo di essere fonte di significativo contenzioso costituzionale e ormai le questioni che riguardano la sanità vengono in rilievo essenzialmente a proposito della clausola dei Livelli essenziali di assistenza sanitaria e a quella del coordinamento della finanza pubblica.
La riforma, soppressa la legislazione concorrente, “spacchetta” la materia sanitaria in tre competenze esclusive statali (“disposizioni generali e comuni per la tutela della salute”, “disposizioni generali e comuni per la sicurezza alimentare” e “tutela e sicurezza del lavoro”) e in una competenza regionale (esclusiva?) sulla “programmazione e organizzazione dei servizi sanitari”.
Ora, a parte la problematicità di due competenze reciprocamente esclusive in materie intrecciate, tale riparto rischia di generare nuovo e difficile contenzioso. In primo luogo, per l’intrinseca difficoltà di determinare il perimetro delle disposizioni generali e soprattutto di quelle “comuni”, il cui ambito sembra in questo caso, al pari delle altre analoghe clausole contenute nella riforma, essere lasciato all’apprezzamento libero di Governo e Parlamento, con la conseguente difficoltà di comprendere il criterio di attribuzione della competenza, tanto più in presenza di una competenza regionale in tema di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari (per fare un esempio, l’attuale assetto della sanità aziendalizzata è o non è modificabile dalla competenza regionale sull’organizzazione dei servizi?).
In secondo luogo, a causa dell’imprecisa e apparentemente casuale determinazione di taluni oggetti, sembra difficile una convivenza pacifica tra le competenze attualmente esercitate dalle Regioni in tema di sicurezza del lavoro (o in tema di alimentazione, che la riforma circoscrive alla sola sicurezza alimentare) e la competenza esclusiva statale quanto alle disposizioni generali e comuni in materia di tutela e sicurezza del lavoro.
In terzo luogo, la circostanza che la riforma tratti allo stesso modo oggetti materiali così diversi come la sanità, l’assistenza sociale e l’istruzione (tutti ripartiti tra competenza esclusiva statale quanto a disposizioni generali e comuni, e competenza regionale sulla programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali e in materia di servizi scolastici) corre il forte rischio di produrre disarmonie in un sistema nel quale l’assetto, sia sotto il profilo costituzionale, sia sotto quello della legislazione ordinaria, delle competenze in campo sanitario, oltre che il quadro effettuale e organizzativo che gli fa da substrato, sono profondamente diversi rispetto all’assetto in materia di assistenza sociale o di istruzione. Sono ancora possibili dei correttivi? Gioverà a tutti riflettervi.
*costituzionalista, già ministro della Salute- Il Sole 24 Ore sanità – 19 marzo 2015