La settimana che si è appena chiusa è stata pessima per le nostre prospettive di ripresa, con la gelata arrivata dalle previsioni del Centro studi Confindustria e del Fondo monetario internazionale che hanno stimato il Pil 2014 al di sotto di quel 0,8% scritto nei documenti ufficiali di finanza pubblica; quella che si apre oggi dovrebbe invece essere cruciale, stando al calendario annunciato dal Governo, per le nuove tappe della spending review, e l’intreccio fra i due temi è ovviamente strettissimo.
Il premier ha respinto gli allarmismi affermando che con qualche decimale di crescita in meno «non cambia niente per la vita quotidiana delle persone», ma i numeri non preoccupano solo gli appassionati del bilancio pubblico. Un rapido confronto europeo, reso disponibile per esempio dal rapporto diffuso dalla Ragioneria generale (ma finora passato quasi inosservato nel dibattito) sulla spesa pubblica in Europa nel 2000-2013, basta a individuare per tabulas il problema: le uscite nel nostro bilancio non sono malate di «gigantismo» in assoluto, perché nel 2013 sono stati spesi 12.924 euro per ogni italiano contro i 14.898 pro capite registrati in Germania o i 17.883 in Francia, ma si tratta di una spesa mal distribuita e soprattutto progressivamente insostenibile se la ricchezza alleggerita dalla recessione si atrofizza poi per la stasi. In rapporto al prodotto interno lordo, infatti, siamo tra i più prodighi d’Europa, dedicando alla spesa pubblica il 50,6% della ricchezza (contro il 44,7% della Germania, il 44,8% della Spagna e il 46,9% del Regno Unito), e tra i grandi Paesi ci batte solo la Francia (57,1%) che infatti ha chiuso il 2013 con un indebitamento netto molto più alto di quello italiano, ma ha uno stock di debito pubblico più leggero. Se per incanto diventassimo “tedeschi”, se cioè applicassimo ai nostri conti i numeri registrati l’anno scorso in Germania, vedremmo ridurre le entrate statali e locali (cioè, prima di tutto, le tasse) di 45,4 miliardi, spenderemmo 92,4 miliardi in meno ma dedicheremmo 15,7 miliardi in più al welfare. Vediamo perché.
La Germania, prima di tutto, è l’unico Paese in Europa ad avere il bilancio in pareggio, perché chiede a cittadini e imprese e dedica alle spese il 44,7% del proprio Pil: un Pil che secondo dati Eurostat è superiore al nostro del 75% in valore assoluto e del 23% in termini pro capite, e a conti fatti permetterebbe manovre espansive senza toccare i parametri di Maastricht. Tornando in Italia, il 44,7% del nostro Pil vale 697 miliardi di euro, cioè 47 miliardi in meno rispetto ai 744 di entrate che registriamo e 92,4 in meno rispetto ai 789 miliardi abbondanti che spendiamo.
Ma non sono solo le grandezze totali ad allargare le distanze che separano Italia e Germania. La Ragioneria spulcia infatti anche i dati della spesa primaria, cioè quella al netto degli interessi sul debito pubblico, e mostra che nel nostro Paese il 23,1% di queste uscite (cioè il 10,5% del Pil) alimenta la spesa per stipendi: facciamo meglio rispetto alla Francia, ma assai peggio della Germania che dedica a questa voce il 17,8% delle uscite totali (il 7,6% del Pil) e di conseguenza, pur spendendo in assoluto meno di noi, ha più risorse da dedicare alle «prestazioni sociali», cioè al welfare: i tedeschi indirizzano a questa voce un punto netto di Pil in più di noi, e se riuscissimo a fare la stessa cosa potremmo alimentare la spesa sociale con 15,7 miliardi in più all’anno.
Proprio i dati sugli stipendi pubblici danno un altro aiuto per capire quanto conta la crescita: nessuna riforma può ovviamente tagliare tre punti di Pil a un pubblico impiego a dieta da anni, ma nonostante il blocco di stipendi, contratti e turn over la spesa è ancora alta in rapporto alla ricchezza che la sostiene. Il problema, allora, si sana solo con un colpo di reni del Pil, che le stime diffuse la settimana scorsa allontanano nel tempo: niente di nuovo, per carità, visto che dal 2002 a oggi solo la Grecia è cresciuta meno di noi, e l’Italia ha abbandonato l’ultimo posto in classifica solo nel 2013 grazie al fatto che la ricchezza greca misurata da Eurostat è scesa l’anno scorso del 3,9%, mentre da noi la flessione è stata dell’1,9 per cento.
Il Sole 24 Ore – 28 luglio 2014