Fra le 200 regioni del continente, quelle meridionali in dieci anni perdono quaranta posizioni per Pil pro capite
ROMA – Ricordava soprattutto l’«imbarazzo», Carlo Azeglio Ciampi. Una sensazione sgradevole che provava quando a Bruxelles, da ministro del Tesoro, si sentiva dire che fra i Paesi europei l’Italia era quello «più indietro» nell’uso dei fondi comunitari. L’ex governatore della Banca d’Italia rese questa amara confessione a Nuoro, il 10 ottobre del 2000. A Roma c’era il governo di Giuliano Amato. Due anni prima l’attuale ministro della coesione Fabrizio Barca, chiamato al Tesoro proprio da Ciampi, aveva lanciato «Cento idee» per lo sviluppo del Sud. Fu accorata, la requisitoria del presidente della Repubblica, al Quirinale da appena un anno e mezzo. Accorata ma durissima contro il «grande spreco» dei soldi europei inutilizzati, che avrebbero potuto far crescere il Sud. Uno spreco ancora più insultante perché «sono in qualche modo soldi nostri, che vengono dalle nostre tasche, dal nostro lavoro». Ciampi disse che era arrivato il momento di voltare pagina, farla finita con le opere incompiute e mettersi d’impegno per usare i soldi. Perché «ognuno è artefice del proprio destino».
Parole che potrebbero essere state pronunciate oggi: in questi dodici anni non è stato fatto neanche un piccolo passo avanti. E se il divario fra il Sud e il Nord si è fatto ancora più spaventoso la responsabilità è anche di chi non ha provveduto a sfruttare quel tesoro. Secondo la Svimez il Prodotto interno lordo medio delle Regioni meridionali era nel 1951 pari al 65,5% di quello del Centro Nord. Nel 2009, al culmine della recessione precedente, era sceso al 58,8%: appena sopra al 56% del 1995. Conseguenza della più bassa crescita, ovvio. Ma il confronto con le altre aree europee svantaggiate fa toccare con mano che cosa abbia significato per il Sud d’Italia «lo spreco» immane dei fondi europei inutilizzati denunciato nel 2000 da Ciampi. Nella graduatoria delle 208 regioni continentali meno sviluppate, quelle del Sud Italia si situavano nel 1995 tra il 112° e il 192° posto. Dieci anni dopo erano scivolate tra il 165°e il 200°. Dal 1999 al 2005 il Prodotto interno lordo di ogni singolo cittadino delle aree dell’«obiettivo 1» (le più arretrate) è cresciuto del 3%, in Italia dello 0,6%. Cinque volte di meno. Ci sono regioni che si erano affrancate da quel livello di povertà, traducibile per le statistiche comunitarie in una ricchezza media procapite inferiore al 75% della media continentale, e ci sono ripiombate. Nel 2001 la Basilicata aveva raggiunto l’83%, sei anni dopo era al 75%. La Sicilia è passata dal 75% al 66%. La Puglia, dal 77% al 67% del 2007.
Va detto che quelli dell’Europa non sono gli unici denari a giacere nei cassetti. L’Associazione dei costruttori, per esempio, si lamenta che da agosto 2011 il Cipe ha stanziato 19 miliardi per le infrastrutture: tuttora fermi. Ma ha ragione Rita Borsellino, europarlamentare democratica e sorella del giudice Paolo Borsellino, a definire «irresponsabile» una certa gestione dei fondi strutturali europei: rammentando come in Sicilia al 30 giugno dello scorso anno fosse stato completato appena l’8% dei progetti finanziati a valere sui piani 2000-2006. Per rendersi conto di quanto la situazione sia grave basta leggere l’ultima relazione della Ragioneria generale dello Stato, sfornata giusto un anno fa. La massa finanziaria destinata all’Italia da Bruxelles per il periodo che va dal 2007 al 2013 è imponente: fra finanziamento comunitario e contributo nazionale ben 59,4 miliardi di euro, di cui ben 47 destinati al Sud. Ebbene, alla fine del 2010 soltanto un quinto di quella somma enorme era stato già impegnato. In tutto 12 miliardi, il 18,9% del totale. Ma i denari effettivamente spesi erano molti, ma molti meno: 5,9 miliardi, ovvero il 9%. Un bilancio imbarazzante, considerando che il primo triennio 2007-2010 era già scaduto.
Semplicemente abissale, poi, la differenza fra Sud e Nord. Nelle Regioni meridionali la spesa reale era all’8,2%, contro il 16,3% del resto d’Italia. Tenendo conto delle risorse utilizzabili nel solo primo triennio, pari a 33,5 miliardi, ecco che le otto regioni meridionali erano riuscite a impegnarne il 23,6%, con una spesa effettiva, però, non superiore all’11,4%. E il bello è che le amministrazioni centrali, che tutti noi immaginiamo più efficienti rispetto alle strutture regionali, sono riuscite a fare appena meglio, con impegni pari al 41,2% e una spesa reale del 21%. Per fare un paragone, lo Stato ha realizzato una performance tripla rispetto alla Calabria, che si è fermata al 7%, ma soltanto un po’ più decente di quella della Sardegna, regione che ha speso il 17,2%. Senza riuscire ad avvicinarsi al Veneto, dove l’utilizzo reale dei fondi europei si è attestato a un pur modesto 25,5%.
Sulle cause si è discusso a lungo. Spesso si tira in ballo la scarsa (o scarsissima) capacità progettuale delle amministrazioni locali o centrali. Ma non c’è dubbio che ci sia anche il concorso dell’indolenza burocratica e di una certa miopia della politica. Le conclusioni a cui sono giunti i magistrati della Corte dei conti in una recentissima indagine sull’uso dei fondi comunitari nel periodo 2000-2006 da parte della regione siciliana sono illuminanti. Si parla di «eccessiva frammentazione degli interventi programmati e notevolissima presenza di progetti non conclusi, pari al 35 per cento della spesa certificata», che «hanno sfavorevolmente inciso sullo sviluppo locale e non hanno prodotto l’auspicato miglioramento delle condizioni di vita della popolazione». Non bastasse, i ricambi ai vertici delle strutture regionali seguiti alle vicende politiche, «hanno di fatto rallentato la spesa compromettendo l’efficacia del programma regionale» mentre il livello molto elevato di errori e irregolarità «denota la carenza dei controlli e una generale scarsa affidabilità degli stessi».
L’Ifel, il centro studi dell’Associazione dei Comuni, sottolinea che gli interventi sono spesso troppo frammentati, con una generale incomprensione fra gestione a programmazione, quando i fondi non vengono utilizzati per progetti non strategici. L’Anci ha calcolato che i Comuni, destinatari di una trentina di miliardi per il periodo 2007-2013, hanno messo in cantiere qualcosa come 2.410 progetti distribuiti per 1.293 municipi. La dimensione media è infinitesima: il valore del 43,5% delle iniziative non supera 150 mila euro. Nella sola Calabria si sono mobilitati, sulla carta, 264 Comuni. La dimensione media è infinitesima: il 43,5% delle iniziative non supera nemmeno 150 mila euro. E poi ci si stupisce che per il 40% dei progetti non ci sia nemmeno una pagina scritta, né un segno sulla carta.
Sergio Rizzo – Corriere della Sera – 12 maggio 2012