Un rapporto disegna scenari inquietanti: l’equivalente dei Pil di Turchia e Svizzera finisce nella spazzatura e produce 3,3 miliardi di tonnellate di Co2. Primato negativo all’Asia industrializzata e sudorientale.
L’agenzia Onu ha compilato una serie di consigli per migliorare l’atteggiamento dei consumatori e dei produttori. Ma la crisi si fa sentire e produce in Italia risultati paradossali. Coldiretti, a seguito di un’analisi di Waste Watcher, dopo la diffusione del rapporto Fao sugli sprechi alimentari, ha calcolato che in Italia ognuno di noi “ha buttato nel bidone della spazzatura 76 chili di prodotti alimentari durante l’anno, riducendo negli ultimi 5 anni circa il 25% degli avanzi”. Insomma, in 5 anni abbiamo ridotto di un quarto i nostri rifiuti alimentari.
Il rapporto Fao sulle conseguenze ambientali dello spreco di prodotti alimentari
A livello globale si spreca ogni anno una quantità di cibo (senza tener conto di pesce e crostacei) pari a 750 miliardi di dollari. Per dare un’idea della portata del danno, basta immaginare di prendere i Pil di Turchia e Svizzera, chiuderli in un enorme sacchetto nero e buttarli nella spazzatura. Questo è il dato più significativo che emerge dal “Rapporto sulle conseguenze ambientali dello spreco di prodotti alimentari” presentato dalla Fao.
A gravare sulle spese è in larga parte lo spreco di verdure (23%), seguito da carne (21%), frutta (19%) e cereali (18%). La dissipazione della carne pesa soprattutto a causa dei suoi costi di produzione: ne viene buttato il 4%, ma l’incidenza economica è cinque volte maggiore. Mentre il discorso è inverso per i cereali: la quantità “buttata” è maggiore del valore economico. C’è invece un certo equilibrio per frutta e verdura. Il volume globale dello spreco è stimato in 1,6 miliardi di tonnellate di “prodotti primari” e in 1,3 miliardi di tonnellate di cibo commestibile.
Le regioni in cui il fenomeno è più marcato sono l’Asia industrializzata e il Sud Est asiatico che buttano circa il 28 e il 22% di cibo prodotto, al terzo posto c’è l’Europa con circa il 15%, seguita da America Latina e Africa subsahariana. Le regioni più parsimoniose sono America del Nord, Oceania, Nord Africa e Asia centrale.
Ma i costi non sono solo economici. Anche l’ambiente risente dell’enorme mole di cibo che viene gettato nell’immondizia: stando ai dati del rapporto, ogni anno circa 3,3 miliardi di tonnellate di Co2 avvelenano l’atmosfera, una quantità che colloca lo stato “del cibo disperso” al terzo posto dopo le emissioni di gas serra prodotte da Usa e Cina.
Lo studio inoltre valuta anche le conseguenze che lo spreco alimentare ha su acqua e biodiversità. Per dare un’idea dell’enorme inquinamento, basti pensare che per coltivare, stoccare e portare sulle tavole le tonnellate di cibo che non viene mangiato, si sfrutta una quantità d’acqua pari al flusso che il fiume russo Volga ha in un anno.
Ma perché questo spreco? Secondo gli analisti si tratta di un insieme di cause. Nei paesi più ricchi, da un lato c’è un errato comportamento dei consumatori, dall’altro la mancanza di comunicazione nella catena di approvvigionamento. I compratori non pianificano correttamente la spesa, mentre i rivenditori spesso mandano indietro del cibo perfettamente commestibile per ragioni di qualità o estetica.
Mentre nei paesi in via di sviluppo la maggior parte dello spreco avviene nella fase successiva al raccolto, al primo step della catena di fornitura, a causa di limiti strutturali e tecnologici nello stoccaggio e inefficenza nel trasporto, spesso combinati con condizioni climatiche favorevoli al deterioramento degli alimenti.
“Tutti, agricoltori e pescatori, trasformatori alimentari e supermercati, governi locali e nazionali, singoliconsumatori – afferma José Graziano da Silva, direttore generale della Fao – devono apportare modifiche inogni anello della catena alimentare umana in primis per evitare lo spreco di cibo e per il riutilizzo o il riciclo”.
Per sensibilizzare la popolazione mondiale al risparmio del cibo la Fao ha redatto un manuale di consigli (Toolkit). Il primo è ovviamente non buttare il cibo. Inoltre la Fao suggerisce di cercare di “riusare il cibo all’interno della catena umana alimentare”, questo si può fare trovando mercati secondari o donando gli alimenti in eccesso a mense o a bisognosi. E se il cibo non dovesse più essere buono per il consumo umano, è possibile destinarlo al bestiame.
“Non possiamo permettere – conclude il direttore della Fao – che un terzo di tutto il cibo che produciamofinisca nei rifiuti o vada perso a causa di pratiche inadeguate, quando 870 milioni di persone soffrono la fame ogni giorno“. (Repubblica – 12 settembre 2013)
Produciamo meno avanzi (più consapevoli o è colpa della crisi?)
Bizzarrie della crisi. Il calo dei consumi, paradossalmente, riesce ad avere anche qualche effetto positivo. Per esempio quello di aumentare la consapevolezza e ridurre gli sprechi. Coldiretti, a seguito di un’analisi di Waste Watcher, dopo la diffusione del rapporto Fao sugli sprechi alimentari, ha calcolato che in Italia ognuno di noi “ha buttato nel bidone della spazzatura 76 chili di prodotti alimentari durante l’anno, riducendo negli ultimi 5 anni circa il 25% degli avanzi”.
Insomma, in 5 anni abbiamo ridotto di un quarto i nostri rifiuti alimentari.
Grazie a una maggiore educazione alimentare o piuttosto perché comperando di meno si butta anche meno?
Coldiretti plaude al contenimento degli sprechi, “forse l’unico aspetto positivo della crisi che ha determinato una maggiore attenzione alla spesa, ma anche alla preparazione in cucina e alla riutilizzazione degli avanzi”. Esistono dati anche sull’aumento delle conserve fatte in casa. Siamo tornati a preparare passate di pomodoro, marmellate, frutta sciroppata.
In questo non vedo nulla di male. E restano comunque quasi 5 milioni le tonnellate di cibo che ogni anno vengono gettate nei bidoni della spazzatura.
Nelle ultime settimane da più parti si è anche discusso della possibilità di “allentare” le rigide regole che impongono alla Gdo di distruggere gli alimenti ormai giunti alla data di scadenza (per la vendita). In molti casi sono alimenti che potrebbero benissimo essere consumati. In Grecia i supermercati hanno avuto il via libera alla vendita di prodotti scaduti, anche in Italia sugli scaffali dei supermercati compaiono offerte “in saldo” di prodotti vicini alla scadenza. Alcuni dubitano ma Altroconsumo avverte: usiamo il buon senso, la dicitura da consumarsi preferibilmente entro…” siognifica solo che l’alimento “entro questa data garantirà il proprio valore nutrizionale, anche in termini di gusto e aroma, una volta passata la data le caratteristiche del prodotto potrebbero venire alterate o compromesse. Questo non significa che non sia più commestibile o sicuro, semplicemente non avrà lo stesso apporto di nutrimenti dichiarato o magari ne risentirà in termini di gusto”.
Una cosa che mi ha sempre colpito è il trattamento del pesce. Quello che viene scongelato la mattina per essere messo sui banconi deve essere per forza gettato la sera. Sono sicura che la Caritas lo accetterebbe volentieri. E comunque, come mi diceva una commessa, potrebbero almeno regalarlo ai dipendenti… (Il Sole 24 Ore – di Fernanda Ruggero)
12 settembre 2013