di Maria Giovanna Faiella. I pasti giornalieri di un paziente costano circa 20 euro a un ospedale, a un altro anche la metà; il prezzo di riferimento stabilito (nel 2012) dall’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (Avcp) è di 12,12 euro. Il servizio di lavanderia può arrivare a costare 7,95 euro a malato; il prezzo “giusto” dovrebbe essere meno della metà, 3,5 euro. Differenze di costo riguardano anche beni largamente utilizzati in ospedali e Asl, come siringhe, camici, guanti, teli chirurgici…
Una categoria, quella dei dispositivi medici, molto eterogenea che comprende dal cerotto alla Tac, dalle protesi mammarie alle carrozzine, fino a veri e propri impianti salvavita, come stent coronarici o valvole cardiache. L’ultima rilevazione effettuata dall’Avcp nel 2012 ha evidenziato, per esempio, che una protesi d’anca in una Regione può costare anche 10 volte di più rispetto al prezzo pagato da un’altra. E che qualche Asl ha speso per i cateteri guida per l’angioplastica periferica quasi 600 euro, rispetto al prezzo di riferimento di 43 euro; qualche altra, invece, ha sborsato mille euro per uno stent coronarico rivestito, mentre il prezzo “giusto” è, almeno per ora, di 217,50 euro. Differenze di costi dovute a una migliore qualità, o denaro sperperato? Sta di fatto che costi di beni e servizi cambiano da Regione a Regione, da Asl ad Asl, da ospedale a ospedale. Ed è proprio in questa giungla di prezzi che, secondo gli esperti, si annidano (corruzione a parte) sprechi dovuti a inefficienze e disorganizzazione: eliminare o perlomeno ridurre questi sprechi negli acquisti di beni e servizi non strettamente legati ad esiti di salute farebbe liberare subito risorse da investire nell’assistenza.
A confermarlo è anche un recente studio condotto dall’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università Cattolica di Roma e dal gruppo Economic Evaluation, HTA and Corruption in Health (EEHTA) del Ceis-Centro di studi economici internazionali presso l’Università di Tor Vergata della Capitale (pubblicato nel 2014 a cura dell’Ispe, l’Istituto per la promozione dell’etica in sanità). Partendo dall’analisi dei conti economici del 2010 di tutte le Asl e aziende ospedaliere di ogni Regione, gli studiosi hanno cercato di individuare le possibili “sacche” di inefficienza. Hanno così notato che alcune voci di costo non strettamente sanitarie – ovvero: lavanderia, pulizie, mensa, smaltimento rifiuti, utenze telefoniche, nonché elaborazione dati, premi assicurativi e spese legali – presentano un impiego delle risorse superiore a quanto sarebbe lecito attendersi, soprattutto se correlate al peso che hanno sull’intera spesa sanitaria pubblica. I ricercatori hanno quindi valutato la variabilità di queste voci, in relazione a parametri quali la popolazione residente (per le Asl), il numero dei dimessi e le giornate di degenza (per le aziende ospedaliere). I risultati? «Se solo si riducesse di un quarto la variabilità riscontrata – risponde uno dei coordinatori dello studio, Amerigo Cicchetti, direttore della scuola Altems dell’Università Cattolica -, i risparmi legati alle otto voci di spesa esaminate sarebbero di quasi due miliardi all’anno, per l’esattezza: circa 900 milioni per le Asl e più di 964 milioni per le aziende ospedaliere». «La variabilità dei costi – aggiunge l’altro coordinatore della ricerca, Francesco Saverio Mennini, direttore del gruppo EEHTA del Ceis all’Università di Tor Vergata – è significativa sia in termine di macroaggregato (“Beni e servizi”) sia per specifiche voci. E anche all’interno di ogni Regione esiste una differenza enorme di costi per ciascuna voce».
Lo studio evidenzia, per esempio, che per lo smaltimento di rifiuti sono state le Asl della Lombardia a spendere meno, mentre quelle di Abruzzo e Sardegna hanno fatto registrare la spesa più alta. Quest’ultime Regioni, insieme al Friuli Venezia Giulia, presentano ampi margini di risparmio. Se invece si va a confrontare la spesa per lo smaltimento dei rifiuti tra le aziende ospedaliere, i valori più bassi si sono registrati in Calabria, quelli più alti nel Lazio. In quest’ultima Regione, poi, si è vista una notevole variabilità “interna”, tra un’azienda e l’altra. «Perfino in Regioni virtuose, come Emilia Romagna e Veneto, nonostante la centralizzazione degli acquisti, per qualche voce rimane una variabilità che si può ancora ridurre» fa notare Cicchetti. E se i dati della ricerca citata si riferiscono ai conti economici del 2010, non si discostano le conclusioni del recente rapporto, relativo a dati 2013, dell’Osservatorio sul federalismo del Tribunale dei diritti del malato-Cittadinanzattiva. «Abbiamo riscontrato – dice infatti Sabrina Nardi, responsabile dell’Osservatorio e vicesegretario del Tribunale dei diritti del malato – che anche le Centrali di acquisto collaudate e pienamente funzionanti in alcune Regioni potrebbero ancora perfezionare l’aggregazione della domanda per alcuni beni e servizi. Per esempio, nessuna delle otto centrali esaminate (Arca-Lombardia, Intercent-Emilia Romagna, SCR-Piemonte, Estav nord ovest Toscana, SUA-Calabria, Abruzzo, Sicilia, SORESA-Campania) prevedeva nel 2013 gare centralizzate per lo smaltimento dei rifiuti ospedalieri».
Come ha rilevato di recente anche la Corte dei Conti, i diversi sistemi contabili adottati dalle Regioni rendono i risultati di bilancio non del tutto omogenei e quindi non esattamente comparabili. «Questi limiti non inficiano i risultati dello studio – dice Cicchetti -. Certo, se tutte le aziende sanitarie avessero indicatori standard per misurare anche la qualità dei servizi la valutazione sarebbe più precisa». Nel frattempo, la ricerca fornisce comunque uno strumento per analizzare a fondo dove si annidano inefficienze e sprechi per ogni singola voce di spesa. «Partendo dai dati rilevati, ciascuna Asl e azienda ospedaliera può andare a studiare la variabilità per capire a cosa è dovuta – precisa Cicchetti -. Per esempio, potrebbe derivare dalla diversa qualità dei servizi come, nel caso della ristorazione, dalla presenza di pasti differenziati in base alle esigenze dei malati». Se però la variabilità è “patologica”, niente più alibi: è opportuno intervenire per riportarla alla normalità, sottolineano i ricercatori. «Abbiamo indicato gli strumenti per individuare dove e come si può recuperare efficienza – afferma Mennini -. Questo modello, se applicato in ogni singola azienda sanitaria, potrebbe consentire di risparmiare nel breve periodo, senza tagliare prestazioni e servizi sanitari, in modo da impiegare le risorse liberate per finanziare interventi urgenti in materia di prevenzione, assistenza domiciliare, innovazioni farmacologiche, equo accesso alle cure. Tutto questo, in particolare per gli sprechi evidenziati nelle otto voci analizzate, lo si potrà fare anche rivedendo gli appalti già in essere, che sicuramente rappresentano un ostacolo per raggiungere i risultati sperati».
Corriere della Sera – 23 giugno 2014