In ordine sparso e chiedendo scusa per le inevitabili dimenticanze: Tarsu, Tares, Tia 1, Tia 2, adesso Tari, per qualche ora persino Taser, che poi si scoprì era il nome di una pistola elettrica e infatti si fece marcia indietro. La tassa sui rifiuti ha cambiato nome ad ogni governo. Ma dietro questo tika taka di sigle c’è una certezza: ad ogni scadenza la mazzata è più forte. Lo sa bene chi proprio in questi giorni sta ricevendo a casa il bollettino da pagare.
E lo confermano le tabelle di Federconsumatori: solo negli ultimi quattro anni l’aumento medio è stato del 22%. Tre volte l’inflazione. Anche per questo la Tari non entrerà nella nuova tassa unica sulla casa (Imu + Tasi) che dovrebbe partire il prossimo anno, come conferma il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti. Anche ma non solo.
In realtà la tassa sui rifiuti è in lizza per il titolo di più grande pasticcio della seconda Repubblica. E per questo viene maneggiata con grande attenzione. Sono passati quasi 20 anni da quando l’allora ministro dell’Ambiente Edo Ronchi annunciò quella che doveva essere una svolta: «I cittadini pagheranno i rifiuti non più in base ai metri quadri della propria abitazione ma proporzionalmente alla quantità di rifiuti prodotta». Era il 30 dicembre del 1996, chi è nato quel giorno sta per diventare maggiorenne. Ma nel frattempo di strada ne abbiamo fatta davvero poca. Secondo i dati di Federambiente, l’associazione che rappresenta le imprese di raccolta dei rifiuti, i Comuni che hanno mantenuto fino in fondo la promessa sono appena 250 su 8 mila. Il tre per cento. Solo loro adottano la cosiddetta «tariffazione puntuale», cioè pesano o misurano la quantità di rifiuti non differenziati che viene prodotta da ogni singola famiglia. Più ne butti nel cassonetto, più paghi: un principio sacrosanto e anche l’unico modo per spingere davvero tutti a fare la raccolta differenziata. A Copparo, in Emilia Romagna, si usa il metodo del «sacco contatore»: si paga a seconda del numero di buste usate per gettare via l’indifferenziata. A Capannori, in Toscana, la misurazione viene fatta con un microchip piazzato dentro il cassonetto. Poi ci sono Castelfranco Veneto, tutta la Val di Fiemme in Trentino, Chieri in Piemonte. Il sistema viene utilizzato solo in centri piccoli e del Nord. La solita resistenza a qualsiasi tentativo di cambiamento? «Non solo», dice Edo Ronchi, il ministro che annunciò la svolta. «Per applicare fino in fondo quel principio – racconta – era necessario che sia le aziende sia le amministrazioni comunali garantissero la totale trasparenza dei conti. Ci voleva una rendicontazione completa, insomma. E non tutti facevano i salti di gioia».
Il punto è che la tassa sui rifiuti, invece di spingerci a buttare la buccia della mela nell’umido e la bottiglia nel vetro anche per pagare di meno, è stata usata dai Comuni come strumento di difesa, più o meno legittima. Di fronte ai tagli dei trasferimenti da parte dello Stato, diversi sindaci hanno alzato le aliquote pur di riuscire a chiudere i bilanci. Con tanti saluti al principio del chi inquina paga. E con la beffa della tassa sulla tassa: in molti casi sulla somma pagata è stata aggiunta anche l’Iva, sostenendo che il bollettino della spazzatura non fosse una tassa ma il prezzo pagato per un servizio. Un salasso al quadrato che, nonostante la bocciatura da parte sia della Corte costituzionale sia della Cassazione, non è stato restituito.
L’ultima promessa è arrivata un anno fa con la legge di Stabilità del governo Letta. Per diffondere il meccanismo utilizzato da quei 250 sindaci virtuosi, si diceva che il ministero dell’Ambiente avrebbe dovuto fissare i «criteri per la realizzazione nei Comuni di sistemi di misurazione puntuale». C’erano sei mesi di tempo ma non è successo ancora nulla. «Mi auguro che il provvedimento venga emanato il più presto possibile», dice Gianluca Cencia, direttore di Federambiente. Ma in fondo cosa sono sei mesi rispetto a 20 anni?
Lorenzo Salvia – Corriere della Sera – 6 novembre 2014