Ricordate la storia di Erin Brockovich, che valse l’Oscar a Julia Roberts? Ecco, qui non c’è una segretaria precaria che trascina in giudizio la Pacific Gas & Electric per la contaminazione trentennale del cromo esavalente nelle acque di Hinkley, costringendo il colosso dell’energia a pagare il più ingente risarcimento nella storia degli Stati Uniti d’America.
O almeno, questa è una pagina che dev’essere ancora scritta, visto che siamo soltanto ai primi risultati dello studio di biomonitoraggio realizzato dalla Regione con l’Istituto superiore di sanità (Iss). Ma tali esiti sono comunque allarmanti: nel sangue di 507 veneti esposti all’inquinamento delle falde acquifere da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas), dovuto ai quarantennali sversamenti dell’azienda chimica Miteni di Trissino, sono state rilevate concentrazioni «significativamente superiori» rispetto al resto della popolazione, al punto che ora scatterà una maxi-campagna sanitaria dedicata a 250 mila residenti fra le province di Vicenza, Verona e Padova.
L’annuncio è stato dato ieri a Venezia, dal tavolo che per l’appunto ha riunito Regione e Iss, ma anche l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Premessa di Luca Coletto, assessore regionale alla Sanità: «In questa vicenda i cittadini del Veneto sono parte lesa. Per questo non abbiamo lesinato impegno e risorse». Così dopo la (casuale) scoperta dell’anomalia idrica, avvenuta nel corso di una ricerca condotta dal Cnr nel 2013, Palazzo Balbi ha avviato due linee di sorveglianza: ambientale e sanitaria. Sul primo fronte «è stata identificata la fonte contaminante ed è stata delimitata l’estensione della contaminazione», mettendo in sicurezza l’acqua potabile già da luglio di quell’anno attraverso filtri a carboni attivi e promuovendo nel 2014 la mappatura dei pozzi privati ad uso potabile, tanto che l’indagine dell’Arpav ha riguardato un’area di oltre 300 chilometri quadrati e ha comportato l’analisi di più di 1.800 prelievi d’acqua. Sul secondo piano è stato invece avviato con un monitoraggio sierologico sulla popolazione, nella consapevolezza che gli elementi incriminati sono «molto persistenti, molto bioaccumulabili, tossici» e caratterizzati da una «eliminazione lenta con riassorbimento a livello renale» (traduzione di Loredana Musmeci, direttore del Dipartimento ambiente dell’Iss: «Per smaltirli l’organismo, soprattutto per i maschi, ha bisogno di due-quattro anni»).
Per questo sono stati arruolati 257 residenti nei centri ad alto impatto (Montecchio Maggiore, Lonigo, Brendola, Creazzo, Altavilla Vicentina, Sovizzo e Sarego) ed altri 250 abitanti in località scelte per un raffronto (Mozzecane, Dueville, Carmignano, Fontaniva, Loreggia, Resana e Treviso). Inoltre sono stati selezionati 120 dipendenti di aziende zootecniche. Se per questi ultimi l’esame è ancora in corso, per la popolazione generale le analisi iniziate ad ottobre sono state ultimate una settimana fa. Ebbene: la ricerca di una dozzina di biomarcatori, appartenenti alla famiglia delle Pfas, soprattutto per gli analiti Pfos e Pfoa si è conclusa con risultati maggiori nel campione dei Comuni sotto attacco rispetto a quelli di confronto («il rapporto è di 10 a 1») e, all’interno dell’area più a rischio, con esiti più rilevanti nel territorio dell’Usl 5, quella dello stabilimento Miteni, piuttosto che nell’Usl 6 («la superiorità è di 60-70 volte»).
Domanda: quanto nocive sono queste sostanze? Marco Martuzzi, epidemiologo del Centro ambiente e salute dell’Oms a Bonn, prende a riferimento la scala dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro: «Sono classificate come “2B”, dunque potenzialmente cancerogene. Questo significa che, allo stato, i loro effetti sulla salute non sono conclamati, ma nell’incertezza occorre agire prontamente, come ha ben fatto il Veneto. I sindaci sono preoccupati per danni economici, ma purtroppo il principio del “chi inquina, paga” non ha trovato applicazione, visto che la materia non è completamente normata». I limiti sono previsti dalla legge solo per le acque superficiali e potabili, non per quelle di scarico. «Su richiesta della Regione abbiamo indicato una soglia di 0,03-0,05 microgrammi per litro, come per la potabilità, ma il nostro parere non è cogente, deve intervenire il ministero dell’Ambiente», sottolinea Musmeci.
La giunta Zaia valuterà comunque «l’azione di responsabilità e la promozione dell’area a sito di bonifica di interesse nazionale». Ma all’opposizione non basta. Pd, Moretti Presidente, M5S e tosiani ritengono «uno sgarbo istituzionale incomprensibile» la mancata divulgazione dei dati nella recente seduta straordinaria del consiglio regionale. «Avevamo ragione noi», rivendica il pentastellato Manuel Brusco. «Ho già coinvolto anche la commissione parlamentare di inchiesta sugli ecoreati perché si affianchi alla magistratura e faccia da pungolo nella ricerca dei responsabili», anticipa il deputato dem Federico Ginato.
Mantoan: «Anche io contaminato pronto a ripulire il sangue»
Alla fine ci ride anche su, smentendo per una volta la sua fama di burbero. «Così potrò dire che il mio brutto carattere è tutta colpa delle Pfas…». Domenico Mantoan, segretario generale dell’Area sanità e sociale della Regione, abita a Brendola. Già, proprio in uno dei Comuni maggiormente esposti alla contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche, tanto da venire compreso prima nello studio di biomonitoraggio e d’ora in avanti pure nello screening sanitario. «Sono uno dei 507 volontari che si sono sottoposti alle analisi in questi mesi — rivela — e sono pure uno di quelli che hanno evidenziato i risultati peggiori. Del resto ho sempre creduto all’acqua del sindaco, per cui da decenni bevo quella del rubinetto. Nella scala in cui la media dei soggetti esaminati si è attestata intorno a 10 nanogrammi di inquinante per grammo di sangue, un po’ sotto o un po’ sopra, io ho toccato quota 25. Per intenderci sono ai livelli di quelli del Minnesota», aggiunge il dirigente regionale, alludendo agli esiti della campagna di monitoraggio condotta nel 2008 nello Stato americano per un’altra vicenda di acqua inquinata, caratterizzata da numeri più pesanti della media veneta.
Dunque adesso anche Mantoan verrà invitato, dalle strutture che dipendono da lui, a partecipare alla campagna di controllo sanitario. Ma non solo: «Se e quando il gruppo di lavoro che verrà istituito riterrà opportuno attivare, su base volontaria e sperimentale, un programma che punta ad eliminare le Pfas dal sangue — anticipa il manager della sanità veneta — darò la mia disponibilità a seguire la procedura di “plasma exchange”». Si tratta della plasmaferesi, pratica che consiste nella separazione della componente liquida del sangue da quella cellulare e nella conseguente rimozione delle sostanze tossiche presenti all’interno.
Al di là del caso personale, comunque, Mantoan si prepara a gestire un percorso di lungo periodo, che impegnerà personale e risorse della Regione. «Per noi la cosa non finisce qui — puntualizza a margine della presentazione dei dati e degli interventi — ma casomai comincia qui».
Il Corriere del Veneto – 21 aprile 2016