Arturo Zampaglione, Repubblica. Accompagnate da proteste, da 3 milioni di firme a una petizione popolare e dagli echi della marcia del 10 ottobre a Berlino di 250mila oppositori, incomincia oggi a Miami il penultimo round di trattative tra Europa e Stati Uniti per il Ttip (Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti), il maxi-trattato commerciale tra le due sponde dell’Atlantico. L’obiettivo dei negoziati avviati nel 2013? Ridurre o eliminare le barriere — tariffarie e non — che frenano gli scambi, e quindi lo sviluppo economico. Secondo Cecilia Malmström, il commissario di Bruxelles che guida la delegazione commerciale europea, il Ttip farà salire di 92 miliardi di dollari il Pil della Ue. Il significato del trattato va comunque al di là di questi dati quantitativi perché sarà creata una immensa zona di libero scambio con 800 milioni di persone, controbilanciando così il crescente potere cinese.
Proprio per questo il Ttip viene già soprannominato la “Nato dell’economia”. Ma le trattative si preannunciano difficili. Dietro alle barriere commerciali si nascondono interessi corporativi e ambizioni nazionali, differenze culturali e inquietudini sociali che non è facile accantonare: anche perché le liberalizzazioni portano a cambiamenti profondi in termini di delocalizzazione delle imprese e di occupazione.
I colloqui per l’accordo di libero scambio tra le due sponde dell’Atlantico arrivano all’undicesimo giro, il penultimo dell’anno. Sul tavolo i temi caldi degli Ogm in agricoltura, della risoluzione delle dispute tra multinazionali e Stati e dell’accesso agli appalti pubblici Usa da parte delle aziende europee. Si rafforzano i movimenti di protesta
Gli ostacoli maggiori non sono di natura tariffaria, visto che in media i dazi non superano il 4 per cento, ma riguardano soprattutto i regolamenti su salute, procedure, appalti pubblici, standard di qualità, che rendono più arduo alle imprese americane operare in Europa, e viceversa. Alcuni esempi: i cibi ogm, che gli Usa producono e difendono, mentre in Europa sono considerati pericolosi; i prodotti di origine geografica, dalla feta greca al parmigiano reggiano, che la Ue considera essenziali per una agricoltura di qualità, mentre Washington parla di forma subdola di protezionismo; i servizi finanziari, per i quali gli americani vogliono proteggere la posizione dominate di Wall Street. Non si tratta però di problemi irrisolvibili, dicono gli esperti. E non c’è dubbio che la conclusione positiva all’inizio di ottobre del Tpp, un simile trattato tra 12 paesi dell’area del Pacifico, avrà ripercussioni positive sui negoziati del Ttip. D’altra parte in Europa molti temono che le multinazionali americane possano influenzare l’accordo a tutto svantaggio dei consumatori, dell’ambiente e della sicurezza alimentare nel vecchio continente: ottenendo, ad esempio, di poter vendere cibi geneticamente modificati o carcasse di animali lavate con prodotti chimici.
Per arrivare a un accordo servono concessioni da tutte e due le parti, ma difficilmente gli Stati Uniti, dove a gennaio inizia la campagna elettorale per le presidenziali 2016, saranno disposti a fare passi indietro. E così l’Europa. “Continueremo a lavorare fino alla fine della presidenza Obama, di certo non abbiamo intenzione di chiudere un accordo che riduca gli standard di nessuno” dice l’ambasciatore americano Anthony Gardner.
Per entrambi l’agricoltura è un tassello fondamentale. Non tanto in termini economici, vale 25 dei 700 miliardi di interscambio, quanto in funzione degli standard qualitativi e della contraffazione. Gli americani vogliono accesso al mercato europeo con il loro carico di Ogm che pure non sono oggetto di trattativa, ma rappresentano gran parte delle coltivazioni Usa.
“L’Europa non ha una posizione comune sul tema, ha lasciato libertà di scelta ai singoli Stati. L’Italia, per esempio non può produrli, ma può importarli e così mangiamo Ogm senza saperlo, perché non viene indicato, dovrebbe essere obbligatorio come la tracciabilità” rilancia Lara Comi, vicepresidente del gruppo Ppe, che aggiunge: “Per noi italiani c’è, molto forte, il problema delle imitazioni, se non viene risolto e le indicazioni non sono protette l’intesa sarebbe al ribasso. E se l’accordo fosse così, non siamo sicuri di volerlo votare”.
“La valenze di questo trattato non sono solo economiche” spiega Bernd Lange, relatore sul Ttip della Commissione commercio internazionale dell’Europarlamento: “Parliamo di uno scambio di valori globali ed è per questo che sono disponibile a negoziare. Poi vedremo se l’accordo sarà buono. Se non lo sarà il Parlamento potrà respingerlo come già successo in passato”.
Alimentare, i punti controversi
Il principio di precauzione: se c’è un rischio molto elevato che un prodotto possa far male, in Europa, le autorità possono intervenire in attesa di accertamenti scientifici; negli States vige il principio praticamente opposto, per cui alimenti e procedure sono sicuri fino a prova contraria.
Severità sulla filiera: nel nostro sistema la sicurezza deve essere garantita lungo tutta la filiera produttiva “from farm to fork” (dai campi alla tavola), con prerequisiti igienici per i produttori, tracciabilità del prodotto ecc.; il sistema Usa, invece, verifica per lo più la sicurezza del prodotto finito (ecco perché i trattamenti di igienizzazione chimica con la clorina sulla carne di pollo sono così diffusi, mentre in Ue sono proibiti).
Niente ormoni nella carne: in Europa è proibito somministrare ormoni al bestiame per farlo crescere di più, perché mancano sufficienti studi circa la loro sicurezza. Negli Usa invece è ammesso l’uso di queste sostanze che riducono i tempi di allevamento e quindi fruttano moltissimo alle imprese.
Meno antibiotici: negli allevamenti americani gli antibiotici possono essere usati in dosi maggiori, anche per far crescere di più gli animali. In Europa i limiti sono più restrittivi e l’uso è consentito solo per proteggere il bestiame dalle malattie.
Ogm senza etichetta: nell’Ue i prodotti che contengono più dello 0,9% di Ogm devono dichiararne la presenza in etichetta. L’informazione sulle confezioni non è obbligatoria mai, invece, negli Stati Uniti.
Le denominazioni d’origine non importano: cosa succederebbe se gli States potessero esportare i tanti prodotti che rubano il nome delle nostre 250 Dop e Igp (come ad esempio il “Parmesan” o il “Gorgonzola” prodotto in Illinois)? Per noi il nome deve restare garanzia della provenienza e della qualità degli alimenti.
Per l’approvazione del documento che sarà redatto dalla Commissione Ue, sarà necessario il via libera del Consiglio dei ministri e del Parlamento: poi il trattato andrà ratificato dagli Stati membri, basterebbe che uno solo lo bocciasse per far crollare l’intero impianto.
L’INTERVENTO: “Perché il Ttip è un attacco alle democrazie europee”
Slavoj Žižek. Accade che talvolta le facce diventino simboli, ma non della forte personalità del loro proprietario, bensì delle forze anonime che stanno dietro di loro. Negli ultimi tempi, il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) ha acquisito un nuovo simbolo, il glaciale volto di Cecilia Malmström, commissaria al Commercio dell’Ue. A un giornalista che le chiedeva come riuscisse a continuare a promuovere il Ttip a fronte dell’enorme opposizione dell’opinione pubblica, senza alcun pudore ha risposto: «Il mandato non mi è stato conferito dal popolo europeo». Paradossalmente, il suo cognome è una variante di “maelstrom”, che in inglese significa vortice…
Lo scenario generale dell’impatto sociale del Ttip è chiaro a sufficienza ed equivale a niente di meno di un assalto selvaggio alla democrazia. Lo si evince più chiaramente che mai nel caso delle cosiddette “Risoluzioni delle controversie tra investitori e Stato” (Isds) che autorizzano le aziende a querelare i governi nel caso in cui le loro politiche determinassero una perdita dei loro guadagni. Ciò significa che società multinazionali non elette possono imporre le loro politiche a governi democraticamente eletti. Questi tipi di risoluzione sono già in atto in alcuni accordi commerciali bilaterali e possiamo ben vedere come funzionano. La società energetica svedese Vattenfall ha citato per svariati miliardi di dollari il governo tedesco dopo che ha deciso di eliminare gradualmente le centrali nucleari dopo il disastro di Fukushima: una politica di salute pubblica approvata da un governo eletto con un processo democratico è messa a rischio da un colosso energetico a causa di una possibile perdita di introiti.
Ma lasciamo perdere per un momento il quadro generale e cerchiamo di concentrare la nostra attenzione su un interrogativo più specifico: che cosa comporterà il Ttip per la produzione culturale europea?
In “Una discesa nel Maelström”, racconto del 1841 di Edgan Allan Poe, un sopravvissuto a un naufragio narra in che modo avesse evitato di essere risucchiato da un immenso vortice. Si era reso conto che quanto più grandi erano i corpi tanto prima erano risucchiati e che gli oggetti sferici erano attratti dal vortice con la massima rapidità. Di conseguenza, abbandonata la nave, si era aggrappato a un barile cilindrico e aveva atteso di essere soccorso.
I sostenitori della cosiddetta “eccezione culturale” hanno forse in mente qualcosa di simile? Stanno forse pensando di lasciare che le grandi aziende si dibattano nel vortice del mercato globale, cercando però — se non altro — di salvare alcuni prodotti culturali secondari e marginali? E come? È semplice: esonerando i prodotti culturali dalle regole del libero mercato, autorizzando gli stati a concedere sussidi alla loro produzione artistica (con aiuti statali, tasse ridotte, e così via), anche se ciò equivale di fatto a una “concorrenza sleale” nei confronti degli altri paesi. La Francia, una per tutte, insiste che questo è l’unico modo per il suo cinema nazionale di sopravvivere all’assalto furioso dei film di Hollywood campioni di incasso.
Un tale sistema può funzionare? Se è vero che misure di questo tipo possono avere un limitato ruolo positivo, tuttavia io intravedo due problemi. Il primo è che, nell’odierno capitalismo globale, la cultura non è più soltanto un’eccezione, una sorta di fragile sovrastruttura che si erge al di sopra dell’infrastruttura economica “reale”: essa è sempre più spesso una componente fondamentale della nostra economia “reale” mainstream. La caratteristica peculiare del capitalismo “ postmoderno” è la mercificazione delle nostre stesse esperienze: acquistiamo sempre meno oggetti materiali e sempre più esperienze di vita, di sesso, di cibo, di comunicazione, di consumi culturali, di partecipazione a uno stile di vita, ossia, per usare la sintetica definizione di Mark Slouka, «diventiamo consumatori delle nostre stesse vite». Non acquistiamo più oggetti: in definitiva compriamo (il tempo della) la nostra stessa vita. Il concetto di Michel Foucault di trasformazione del nostro Io in un’opera d’arte riceve una conferma inattesa: compro il mio benessere fisico facendo visita a centri benessere; compro la gratificante esperienza di diventare un ecologista consapevole acquistando soltanto frutta biologica e così via.
Il secondo problema è questo: anche se l’Europa avesse successo nell’imporre al Ttip “eccezioni culturali”, che tipo d’Europa sopravvivrà al dominio del Ttip? Non diventerà poco alla volta ciò che l’Antica Grecia diventò per la Roma imperiale, un luogo prediletto da turisti americani e cinesi, la meta del nostalgico turismo culturale, senza più alcuna importanza effettiva?
Si rendono indispensabili misure più radicali. Invece di eccezioni culturali, ci occorrono eccezioni economiche. Ma potremo coprirne i costi? Le nostri crescenti spese militari e il nostro sostegno economico a istituzioni scientifiche straordinarie come il Cern dimostrano che possiamo permetterci investimenti rilevanti senza fiaccare in alcun modo la nostra economia. (Traduzione di Anna Bissanti)
Repubblica – 19 ottobre 2015