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Tremonti tira dritto. Manovra decisa tutta e subito

I timori che un passo indietro possa scatenare la speculazione. I tagli da 40 miliardi verranno decisi giovedì per decreto, tutti in una botta sola.

Il Cavaliere tenta di allontanare l’amaro calice della manovra che, temono i fedelissimi, non lo renderebbe certo più popolare. Dipendesse da lui, cancellerebbe dal vocabolario la parola «sacrifici». L’altro giorno se n’era uscito (salvo correggersi) con la teoria del missile a due stadi, la manovra a scoppio ritardato, insomma prima la carota da donare all’Italia e poi chissà quando il bastone. Ancora ieri Berlusconi recalcitrava, così racconta chi gli ha parlato dopo il matrimonio della Carfagna. Eppure, il finale della commedia sembra già scritto: si farà come dice Tremonti. E come reclamano i mercati. I tagli da 40 miliardi verranno decisi giovedì per decreto, tutti in una botta sola.

La manovra è pronta, garantiscono fonti qualificate. Tremonti mostra solo la copertina perché la sua tecnica è mettere tutti davanti a un «prendere o lasciare». Venerdì una delegazione Pdl era andata da lui per carpirgli qualche primizia. Due ore di amabile colloquio, ma le uniche anticipazioni Gasparri, Cicchitto, Quagliariello e Corsaro le hanno apprese dopo l’incontro, dalle agenzie di stampa… «Martedì Giulio non avrà vita facile», pregustano la rivincita i suoi avversari. Si terrà un vertice a casa del Cavaliere, con Alfano, con Bossi, con la pattuglia dei Responsabili. «Vedrete che lo metteremo in mezzo», è la scommessa nel Pdl, «cosicché Tremonti dovrà venire a patti».

Se lo augura più di tutti il premier. L’idiosincrasia per queste manovre è antica. Nemmeno l’anno scorso voleva correggere i conti, con tutti i ministri era una litania, «basterebbe un bel condono edilizio e vai che abbiamo risolto…». Le cronache ricordano una dichiarazione a passeggio per antiquari, nel centro di Roma per captare gli umori del popolo: «Non ho ancora firmato la manovra», giurò Berlusconi, quando il testo già si trovava sul tavolo di Napolitano. Dovette abbozzare allora, figurarsi se può resistere adesso.

Un anno fa il fronte contro Tremonti contava su bulldog tipo Scajola, aveva un nume tutelare della statura di Letta; oggi il primo non è più ministro, e per colpa di Bisignani il secondo non ha l’ascendente di allora. Soltanto Bossi potrebbe mettere un freno a Giulio, «di sicuro lo farà» scommettono in molti. Però lo scommettevano pure a Pontida, e nulla di questo è successo. L’ipotesi di cambiare cavallo, mettendo un altro sulla poltrona che fu di Quintino Sella, circola ancora nella cerchia dei pasdaran. Ma solo in quella, perché i più lungimiranti tra i berluscones temono l’esatto opposto, che sia Tremonti a minacciare le dimissioni, e allora vagli a dire di no… «Mettiamola così», rivela chi è parte del gioco, «non ci sarà nemmeno bisogno di battere i pugni sul tavolo perché, se c’erano ancora dubbi sui contenuti e sui tempi della manovra, questi sono stati spazzati via venerdì con la reazione della Borsa alla decisione di Moody’s di minacciare il downgrade delle nostre banche, e prima ancora da tutti i colpi di avvertimento sparati dalle agenzie di rating». Un passo indietro di Tremonti trascinerebbe il governo (e l’Italia) nel vortice speculativo. Più che una crisi di governo, si scatenerebbe a quel punto «una crisi di sistema».

E di cosa si discuterà, allora, nel pranzo di martedì? Non è piaciuto a molti, tantomeno al premier, quel modo con cui Tremonti ha messo nel mirino le spese dei politici. «Sembra che lui sia uno degli indignados e noi, se ci opponiamo ai suoi tagli, una banda di ladroni», è il brontolio di fondo cui solo il ministro Romano per ora dà voce pubblicamente. Tra un piatto e l’altro dello chef Michele, si lotterà su come ripartire i sacrifici negli anni. Sette miliardi subito sembrano troppi a Berlusconi, che aveva parlato di 3: chiederà a Giulio uno sconticino.

Lastampa.it – 26 giugno 2011

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