Beniamino Bonardi, dal Fatto alimentare. Nonostante la sicurezza ostentata dai suoi sostenitori, le prospettive di successo dei negoziati sul Trattato di libero scambio Ue-Usa (TTIP) hanno subito un brusco e contemporaneo doppio stop, su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Dopo mesi di dibattito in ben quattordici commissioni del Parlamento europeo, alla fine di maggio quella per il commercio internazionale aveva approvato una risoluzione di compromesso tra socialisti e popolari europei, che faceva propria la proposta della commissaria Cecilia Mallström sul punto più critico: quello della clausola per la risoluzione delle controversie tra investitori e Stati (Investor-State Dispute Settlement – ISDS). Si accetteva la previsione di collegi arbitrali, in sostanza dei tribunali privati, che bypassano la giurisdizione ordinaria degli Stati.
Nel suo parere consultivo, la commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare del Parlamento europeo aveva affermato che “tale meccanismo può in sostanza mettere a repentaglio i diritti sovrani dell’Ue, dei suoi Stati membri e delle autorità regionali e locali, di adottare regolamenti in materia di salute pubblica, sicurezza alimentare e ambiente”. Il compromesso finale della commissione per il commercio internazionale, invece, accettava la costituzione di questi tribunali privati e in prospettiva, per venire incontro alle numerose critiche, auspicava la costituzione di un tribunale multilaterale per gli investimenti, con giudici permanenti.
Questo compromesso, però, è durato poco, tanto è vero che il voto dell’assemblea plenaria del Parlamento europeo sul documento approvato dalla commissione per il commercio internazionale, previsto per il 10 giugno, è stato rinviato, sollevando forti proteste tra gli oppositori al TTIP, a causa della presentazione di oltre cento emendamenti. Ora il documento torna alla commissione per il commercio internazionale, che si riunirà il 29 giugno, e non si sa quando l’assemblea plenaria si esprimerà. Il rinvio è stato causato dalla spaccatura verificatasi all’interno dei socialisti europei e alle crepe che si stavano manifestando anche tra i popolari. Il rischio era che il Parlamento europeo esprimesse un parere negativo sul modo in cui la Commissione Ue sta conducendo le trattative con gli Stati Uniti.
Il segnale che il fronte del compromesso si fosse rotto era arrivato pochi giorni prima dal Ministro francese del commercio estero, Matthias Feckl, che in un’intervista a Euractiv ha affermato che «se l’obiettivo dei negoziati è di portare in Europa standard più bassi, cibi che non vogliamo mangiare, scelte in materia di energia e clima che non sono le nostre, e in cambio non possiamo accedere ai mercati pubblici statunitensi o vedere riconosciute le nostre indicazioni geografiche protette, ovviamente ci saranno dei problemi». Secondo il Ministro del paese transalpino, che, insieme alla Germania, è stato sin dall’inizio il più freddo sull’inserimento dell’ISDS nel TTIP, bisogna trovare qualcosa di completamente nuovo per la risoluzione delle controversie tra imprese e Stati, perché «è inaccettabile che le decisioni democratiche e sovrane possano essere messe in discussione da tribunali privati».
Le difficoltà negli USA sono create dai democratici, il partito di Obama
La proposta è di creare un tribunale internazionale, in più fasi. In un primo momento, questa Corte dovrebbe essere europea e avere autorità su tutti i futuri accordi commerciali dell’Ue. Successivamente, dovrebbe nascere un tribunale internazionale e multilaterale. Per evitare conflitti d’interesse, i giudici dovrebbero essere permanenti e non dovrebbero poter esercitare la professione di avvocato cinque anni prima di essere nominati giudici e cinque anni dopo aver cessato di esserlo. Per scoraggiare cause temerarie, si dovrebbero prevedere penalità per i ricorrenti, fino alla metà dei danni richiesti allo Stato. Le azioni legali non dovrebbero essere consentite per cambiamenti delle leggi, anche nel caso che comportino variazioni molto significative negli utili di una società. Ma i problemi li ha anche Barack Obama, perché, due giorni dopo il rinvio del voto al parlamento europeo, negli Stati Uniti la Camera dei Rappresentanti ha bloccato la legge voluta con forza dal Presidente e approvata con difficoltà al Senato, che accelererebbe l’approvazione dei Trattati commerciali, consentendo al Congresso solo di approvarli o respingerli, senza poterli emendare.
La cosa interessante è che, se al Parlamento europeo sono stati i socialisti a spaccarsi, negli Stati Uniti le difficoltà a Obama le stanno creando i democratici, cioè il suo partito. L’attenzione principale è rivolta non al TTIP ma a un altro Trattato – le cui negoziazioni, in corso da cinque anni, sono in fase più avanzata – il Trans-Pacific Partnership (TPP), che oltre agli Stati Uniti coinvolge altri undici Paesi dell’area del Pacifico: Canada, Messico, Perù, Cile, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Brunei, Malesia, Singapore e Vietnam. In questo caso, la preoccupazione di molti democratici e dei sindacati statunitensi è che questo accordo diminuisca le garanzie per i lavoratori americani e incentivi le delocalizzazioni verso Paesi con minori tutele per i lavoratori e meno vincoli ambientali.
In Europa, la petizione per dire Stop al TTIP ha raggiunto i due milioni e duecentomila firme
C’è poi, anche nel caso del TPP, la polemica sulla previsione di un meccanismo di arbitrato privato, per le controversie tra investitori e Stati, analogo a quello pensato per il TTIP. Negli Usa, il timore è che imprese di undici Paesi del Pacifico possano contestare il diritto degli Stati Uniti di legiferare liberamente, ad esempio in campo ambientale, perché ciò potrebbe danneggiare gli interessi degli investitori stranieri. Per entrambi i negoziati ora la strada è in salita e diminuiscono le speranze di coloro che miravano a concludere le trattative prima della conclusione del mandato presidenziale di Obama nel 2016. Intanto, in Europa, la petizione per dire Stop al TTIP, a cui aderisce anche Il Fatto Alimentare, ha raggiunto i due milioni e duecentomila firme e la raccolta delle adesioni proseguirà fino al 6 ottobre.
Il Fatto alimentare – 23 giugno 2015