“Xe” e “Xj” vengono definite ricombinazioni di Omicron 1 e 2.
Come sono nate?
«Fenomeni del genere avvengono quando una persona contrae due infezioni da ceppi diversi». A parlare è Mauro Pistello, vicepresidente della società italiana di Virologia e professore a Pisa. «Se i due virus infettano la stessa cellula è possibile che si scambino informazioni genetiche. Un pezzettino di uno si mescola con l’altro e nasce una molecola ibrida. Il ricombinante avrà proteine di entrambi i virus».
Si può parlare anche di variante?
«Di fatto lo è ma cambia il meccanismo con il quale virus varia. Qui il processo non è caratterizzato dal progressivo adattamento nell’uomo come avvenuto per le altre varianti», dice sempre Pistello. Delta, Alfa e le altre sono nate perché a forza di replicarsi, il virus ha fatto “errori” e si è modificato. E quando uno di questi sbagli ha dato vita a una forma più contagiosa e “efficiente” di coronavirus, questa si è affermata.
Questo meccanismo può far nascere un virus più pericoloso?
«Sarebbe preoccupante se lo scambio avvenisse all’interno della proteina Spike, verso la quale siamo immunizzati e vaccinati — spiega ancora Pistello — Se quella cambia molto, potrebbe essere più difficile da contrastare per vaccini e farmaci. La cosa peggiore, inoltre, sarebbe che a infettare la stessa cellula fossero due varianti diverse, come appunto Delta e Omicron. Ma vediamo che nella circolazione del virus di solito una variante scalza molto rapidamente quella precedente, della quale non restano più casi».
Che differenza c’è tra “Xe”, rilevata per la prima volta nel Regno Unito e “Xj”, isolata pochi giorni fa a Reggio Calabria?
«In pratica sono uguali, solo il punto di ricombinazione è leggermente diverso». Dice sempre il professore di Pisa. «Per ora registriamo un fenomeno che si verifica anche con altri virus ma che non porta a un impatto importante. Finché si ricombinano delle sottovarianti, come Omicron 1 e 2 cambia poco».
Si è parlato di una maggiore contagiosità del 10% di “Xe”. È davvero più capace di infettare?
Secondo Fausto Baldanti, che dirige la virologia e microbiologia del San Matteo di Pavia «tutte le volte che c’è una nuova forma del virus si parla di aumento di contagiosità. Questo dipende da una serie di fattori. Il primo è che la variante o sottovariante tende a sfuggire alla barriera immunologica derivante dalla risposta dopo l’infezione naturale o dopo la vaccinazione e quindi il contagio si diffonde in una popolazione di persone vaccinate.
Il secondo riguarda l’affinità del legame tra il virus e il suo recettore cellulare umano. Con Omicron questo legame avviene un po’ meno bene, e quindi il virus raggiunge meno frequentemente le basse vie respiratorie. Per questo si parla da una parte di aumento di contagiosità ma dall’altra anche di una protezione verso la malattia grave ancora alta, grazie soprattutto al vaccino».
Le sottovarianti e le ricombinazioni di Omicron danno sintomi diversi tra loro?
«No, sono sempre gli stessi. In tutte queste forme di Omicron il grosso vantaggio che osserviamo è che i casi severi non sono tanti. Questo ci deve far pensare ai milioni di italiani che non hanno ancora ricevuto nemmeno una dose di vaccino — dice Baldanti — Sono a rischio, loro e anche i fragili che possono non rispondere alla vaccinazione».
Quali sono i sintomi più diffusi di Omicron?
Con l’arrivo di questa variante e delle sue sottovarianti si è assistito a un aumento dei disturbi segnalati da medici e pazienti. Il problema non è più la tosse persistente, che a volte nemmeno viene rilevata, ma il mal di testa, di pancia e di orecchio, la stanchezza, i dolori. La febbre a volte non è alta e in alcuni scompaiono olfatto e gusto.
Perché quando erano prevalenti Alfa, Delta e le altre varianti non si è parlato, o si è parlato molto meno, di sottovarianti?
«Ormai da tempo a predominare è Omicron, che all’ultimo controllo superava con la 2 il 90% dei casi. Per questo ci dedichiamo alla ricerca delle sottovarianti, anche grazie al fatto che il sistema di controllo è diventato molto più preciso nel determinare le alterazioni genetiche del virus. Inoltre c’è una maggiore attenzione a intercettare tutte le modifiche. Il fatto che al momento vediamo solo cambiamenti che risalgono comunque a Omicron è un buon segno», dice Baldanti.