L’Agenzia federale statunitense per l’Ambiente US-EPA ha recentemente contestato alla ditta Chemours (che è subentrata nella produzione di PFAS alla ditta Du Pont), il mancato rispetto dei limiti al rilascio ambientale in acqua e in aria di Gen X e dei suoi intermedi dagli impianti situati in North Carolina e West Virginia. Come si ricorderà il Gen X è stato proposto come alternativa meno tossica e meno bio-accumulabile del Pfoa, la cui produzione in suddetti impianti è stata dismessa a partire dal 2010.
Il regime autorizzativo alla produzione di PFAS, stabilito nel 2009, infatti prevedeva che il 99% delle emissioni legate al ciclo produttivo dei PFAS fossero distrutte e/o recuperate al fine di ridurre il rilascio nell’ambiente. I dati ambientali relativi alle acque, anche di falda e all’aria, effettuati a partire dal 2017, hanno fornito le evidenze su cui si basa tale contestazione.
L’attenzione dell’Agenzia Federale si è inoltre indirizzata su uno dei reagenti per la produzione del Gen X e in generale di polimeri organofluorurati-l’esafluoropropilene ossido – contestandone l’utilizzo in un ciclo di produzione non chiuso, questo in contraddizione con le regole del Toxic Substances Control Act che fissano i parametri da rispettare nella produzione di sostanze chimiche ritenute di potenziale preoccupazione.
La sottolineatura da parte di US-EPA della contaminazione dell’aria porta a considerare vie di esposizione differenti da quella alimentare, in particolare di quella idrica, e va a rafforzare il piano di attività dell’agenzia US-EPA recentemente proposto a febbraio 2019, EPA’s Per- and Polyfluoroalkyl Substances (PFAS) Action Plan.
Tale piano, in premessa si pone a tutela della salute umana, limitando ove necessario l’esposizione alle sostanze per- e poli-fluorurate ritenute rilevanti ai fini tossicologici. In questo l’Agenzia si ripromette di indicare dei limiti di contaminazione nelle matrici ambientali e alimentari rilevanti per l’esposizione umana, sulla base dell’individuazione di valori guida per l’esposizione umana, in base al tipo di tossicità caratterizzata alle dosi/esposizioni più basse.
Gli obiettivi sono quelli di fornire una base scientifica solida anche per quelle comunità esposte a forti contaminazioni su base locale, che necessariamente devono prendere decisioni “differenti” rispetto alla popolazione generale, per quanto riguarda gli stili di vita e le abitudini alimentari, al fine di contenere la esposizione entro “livelli tollerabili”. Tali comunità negli Stati Uniti sono localizzate vicino ad impianti di sintesi di PFAS, e nei dintorni di basi militari, soprattutto aeree, dove si è fatto ampio uso di schiume anti-incendio contenenti PFAS quali ritardanti di fiamma.
La presenza di PFAS e in particolare di Gen X nell’aria vicino agli impianti di produzione, oltre ad esporre per via inalatoria i residenti nelle vicinanze, può determinare una contaminazione diffusa del terreno, attraverso la ricaduta al suolo con le precipitazioni atmosferiche, e contaminare progressivamente anche le falde, laddove i PFAS non vengano trattenuti dal carbonio organico e dalle sabbie e argille dei terreni. Questa potrebbe essere la spiegazione per cui in alcuni siti/località, non è stata osservata la repentina caduta dei livelli ambientali di contaminazione, dopo la messa in sicurezza degli impianti di produzione, a sottolineare la presenza di una importante “riserva” ambientale.
La lavorazione del Gen X presso lo stabilimento Miteni a partire da prodotti già lavorati nell’impianto della Chemours di Dordrecht in Olanda era stata autorizzata nel 2014 con delibera regionale.
In tale senso, le api, attraverso l’analisi del miele possono essere considerate delle sentinelle ambientali della contaminazione da PFAS, come riportato già dal 2010 dai ricercatori tedeschi in Baviera in siti contaminati, e più recentemente dai lavori di letteratura che descrivono l’analisi del miele in commercio in Europa. EFSA, nella sua recente opinione interlocutoria sull’esposizione alimentare a PFOS e PFOA del 2018, nel riportare pochi dati relativi al miele, tuttavia segnala una contaminazione per PFOA fino a 0,47 ng/g. La matrice miele, come quella selvaggina e molluschi acquatici – al di là della rilevanza per le esposizioni alimentari – possono costituire delle importanti matrici per capire gli andamenti delle concentrazioni ambientali e nel caso l’identificazione di ulteriori sorgenti di rilascio.
a cura della redazione
25 marzo 2019