Il Corriere della Sera prova a fare un po’ di conti di cosa succede alle pensioni degli italiani con questo ulteriore blocco dell’indicizzazione per le pensioni dai 3mila euro lordi. Ci deve pur essere una tregua per chi, dopo anni di lavoro, aspira legittimamente al raggiungimento della pensione. Una tregua dal cambiamento che verrà: perché le riforme pensionistiche sono come le ciliegie. Una tira l’altra. Ci deve pur essere una tregua dalle continue dichiarazioni dei ministri e dei parlamentari. Una tregua dall’incertezza sull’età alla quale si avrà il diritto di lasciare il posto di lavoro. Eppure questa tregua appare un miraggio. L’incertezza previdenziale sembra una condizione necessaria per l’Italia, sempre in bilico su un deficit e un debito pubblico cronicamente eccessivi. Ma è una situazione sempre più difficile da accettare.
Certo, il vincolo dei conti ha costretto i governi a intervenire più volte sul sistema pensionistico. La riforma Fornero consentirà di risparmiare qualcosa come 93 miliardi di euro. Prima c’erano stati Amato, Dini, Maroni, Prodi: le riforme previdenziali sono state probabilmente gli interventi che più hanno consentito di tenere l’Italia a galla. E in qualche modo i pensionandi, e i pensionati, hanno il merito di aver fatto i sacrifici necessari per aiutare i conti pubblici. Ma è arrivato il momento di lasciarli, in qualche modo, stare. Di cercare altrove le risorse necessarie.
Prendiamo l’audizione tenuta ieri dal ministro del Welfare, Enrico Giovannini, alla Camera. Per le pensioni oltre sei volte l’assegno minimo, quindi pari a circa 3.000 euro lordi al mese (poco più di 2.000 netti), anche per l’anno prossimo scatterà il congelamento. Traduzione: non potranno essere indicizzate all’inflazione come invece accade per i redditi più bassi. Ricordiamo che le pensioni oltre i 1.800 euro sono già state congelate dal 2011 dal governo Monti e per ben due anni non sono state adeguate al caro vita. Il blocco di due anni, però, comporta una perdita che si ripercuote per decenni e sterilizza gli effetti moltiplicativi degli adeguamenti (non si prendono gli aumenti sugli aumenti). E bisogna anche tenere conto che dal 1992 tutte le rendite non sono più agganciate agli aumenti contrattuali dei lavoratori in attività, come avveniva nella Prima Repubblica. Ma solo all’inflazione (e in modo parziale). In vent’anni, insomma, gli assegni Inps hanno visto evaporare il loro potere d’acquisto.
E sul congelamento delle pensioni è iniziata una discussione simile a quella vista per la richiesta (poi ritirata) del Pd di reintrodurre il pagamento della prima rata Imu per gli appartamenti con rendita catastale superiore a 750 euro. Salvo poi scoprire che, in quella fascia, ci sono anche i monolocali.
Sono davvero questi i ricchi o i pensionati d’oro ai quali chiedere altri sacrifici di fronte a una spesa pubblica di 800 miliardi? Sembra proprio di no. Certo, il congelamento riguarda una parte dei pensionati, visto che circa il 50% delle rendite non supera la soglia dei mille euro mensili. Ma definirle pensioni d’oro è scorretto. E poco rispettoso per le persone che, legittimamente, con il loro lavoro, hanno versato i contributi per ricevere una pensione.
Certo, gli assegni previdenziali d’oro esistono, ma su quelli, finora, non si sono visti interventi così veloci come il percorso parlamentare che li ha introdotti. In beffa di ogni risparmio. E di ogni equità sociale. Toccarle, spiegano i tecnici, aprirebbe un contenzioso che coinvolgerebbe la Corte Costituzionale. Meglio prendersela allora con la soglia dei 3 mila euro. È più facile e i risparmi sono assicurati. E le forbici sulla spesa pubblica? Un’altra volta (forse).
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Il blocco totale degli aumenti per le rendite oltre sei volte l’assegno minimo
L’aggiornamento Istat delle pensioni nel 2014 ci sarà per tutti, rimane fuori la quota del trattamento che supera 6 volte il trattamento minimo Inps. Questo significa che, data una inflazione pari all’1,5%, anche chi ha una pensione superiore a 2.973 euro mensili godrà dell’aumento, ancorché limitato a circa 41 euro. Praticamente, l’adeguamento — completamente congelato nel biennio 2012-2013 dal decreto «salva Italia» (riforma Monti-Fornero), che ha bloccato le rendite di importo superiore a tre volte il minimo (1.443 euro mensili) — tornerà in pista nella nuova versione che nega l’indicizzazione alla sola quota di pensione che supera i 2.973 euro. Decisamente meglio di quanto sembrava in un primo momento, e cioè il blocco totale per le rendite di importo superiore a 6 volte il minimo (parliamo comunque di cifre al lordo dell’Irpef). Se così fosse stato, una rendita di 3.000 euro al mese (poco più di 2.100 euro al netto delle imposte), che non può certo definirsi una pensione d’oro, avrebbe dovuto dare addio a 45 euro al mese nel 2014, perdita che a prima vista poteva sembrare un piccolo «sacrificio», ma che invece si sarebbe trascinata nel tempo sterilizzando gli effetti moltiplicativi degli aggiornamenti: non si sarebbero presi gli aumenti sugli adeguamenti. In altre parole, ipotizzando un tasso di inflazione costante pari all’1,5% gli iniziali 45 euro mensili dopo 10 anni sarebbero diventati ben 482 euro. Insomma, il nostro pensionato con 3.000 euro al mese del 2014, a conti fatti, nell’anno 2023 avrebbe riscosso un assegno dimagrito di oltre 6.600 euro (oltre il 20% della pensione). Senza tener conto che dal 1992 tutti i trattamenti pensionistici non sono più agganciati agli aumenti contrattuali dei lavoratori in attività, ma solo all’inflazione, e in modo parziale.
Riconoscendo, invece, anche per le rendite superiori a 2.973 euro, un’indicizzazione parziale fino a questa soglia, la perdita in un decennio si riduce arrivando comunque a superare i 4.000 euro, (per l’esattezza 4.173, come illustrato nella tabella).
Per meglio comprendere la questione, è bene spiegare come funziona il meccanismo della cosiddetta perequazione. Va infatti ricordato che la percentuale di aumento per variazione del costo della vita (l’ex «scala mobile») si applica a scaglioni. Nel senso che viene riconosciuto per intero (100% del tasso d’inflazione) sull’importo di pensione sino al triplo del minimo, al 90% per la fascia di importo compresa tra il triplo e il quintuplo del minimo e al 75% per la fascia d’importo eccedente cinque volte il minimo. Nei primi 8 mesi dell’anno, la crescita dei prezzi è rimasta nell’ordine dell’1,5% circa. In parole povere, l’aumento di gennaio 2014, dopo il ripristino parziale del meccanismo originario, sarà così articolato:
1) più 1,5% (ossia l’aliquota intera) sulla fascia di pensione mensile sino a 1.487 euro, tre volte il minimo di dicembre 2013;
2) più 1,35% (90% dell’incremento) sulla fascia di importo mensile tra 1.487 e 2.478 euro;
3) più 1,125% (75% dell’incremento) sulla fascia di pensione mensile tra 2.478 e 2.973 euro, 6 volte il minimo di dicembre 2013;
4) per le pensioni di importo superiore a 2.973 euro, sulla quota eccedente non ci sarà più alcun adeguamento di scala mobile. È però previsto un piccolo correttivo per le pensioni vicine al limite che altrimenti resterebbero penalizzate.
Corriere della Sera – 10 ottobre 2013