Dal Messaggero. Non solo i dirigenti. Nel pubblico impiego si prepara una nuova stretta. Il turn over, il meccanismo che permette di sostituire i dipendenti che vanno in pensione assumendo giovani, subirà un nuovo giro di vite. Il prossimo anno, dopo anni di blocchi e limiti stringenti, le amministrazioni pubbliche avrebbero potuto ricominciare ad assumere con l’obbligo di rispettare solo un limite: non spendere più del 60% di quanto speso nell’anno precedente per il personale di ruolo andato in pensione. Un tetto, quest’ultimo, valido per le amministrazioni dello Stato centrale, mentre per quelle dei Comuni e delle Regioni, il tetto era più alto, l’80% della spesa sostenuta nei dodici mesi precedenti. La legge di Stabilità, che ieri sera era ancora in fase di limatura, prevede invece che questo limite sia portato per il 2016 al 40%.
E questo sia per le amministrazioni centrali che per quelle locali. Questo significa anche per il prossimo anno una riduzione netta dei dipendenti della pubblica amministrazione. L’unica eccezione riguarderà l’assunzione di 150 dirigenti mediante apposite procedure gestite dalla Scuola superiore della Pubblica amministrazione (che, tra le altre cose, sarà commissariata), oltre a 50 giovani da destinare alla carriera prefettizia, altrettanti per quella diplomatica e 20 posti per l’avvocatura dello Stato. Come detto, fino a ieri a tarda serata, il testo della legge di Stabilità approvato dal consiglio dei ministri giovedì scorso, era ancora in fase di scrittura. Dunque le percentuali potrebbero ancora cambiare. Quello che resta è la filosofia di fondo della norma sugli statali inserita nella manovra.
IL PIANO
La nuova stretta dipende dall’impostazione che il premier Matteo Renzi ha voluto imprimere alla trattativa sul rinnovo del contratto che, dopo sei anni consecutivi di blocco, il governo si è visto costretto a riavviare dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha giudicato illegittimo lo stop pluriennale. L’intenzione è di non far aumentare il costo del personale dello Stato. Tutto quello che verrà concesso come aumento contrattuale, dunque, dovrà essere recuperato dallo stesso comparto degli statali. E la stretta del turn over è solo una delle misure di contenimento inserite dal governo all’interno della manovra.
Il giro di vite maggiore è quello che riguarda i dirigenti. Innanzitutto saranno cancellati la metà dei posti da dirigente che sono attualmente vacanti all’interno della pubblica amministrazione. Rispetto alle premesse della vigilia, la norma risulta in qualche modo ammorbidita. La settimana scorsa, dopo il consiglio dei ministri, era circolata l’ipotesi di una cancellazione totale dei posti da dirigente non occupati. Ma le norme più controverse riguardano il taglio del trattamento accessorio e i premi della dirigenza pubblica. Sulla prima voce la riduzione prevista dalle bozze della manovra è del 20%. Sulla seconda voce è del 10%. Si tratta di elementi importanti delle buste paga dei dirigenti pubblici, dove la parte variabile dello stipendio può arrivare al 50% della retribuzione. La sforbiciata alle voci accessorie è stata la causa che ha portato “all’ammutinamento“ di venerdì scorso dei tecnici della Ragioneria generale dello Stato, che erano stati precettati anche per lavorare anche il week end per mettere a punto il testo della Stabilità, ma che invece hanno spento i computer subito dopo la pausa pranzo rompendo le righe. Una protesta senza precedenti.
L’alleggerimento delle buste paga riguarderà anche gli staff dei ministri e dei sottosegretari. Per loro ci sarà una doppia sforbiciata: un taglio del 10%per i contratti di collaborazione coordinata e continuativa e un taglio, sempre del 10%, per gli uffici di diretta collaborazione. Ma quante risorse per il rinnovo del contratto pubblico si riusciranno a ricavara da questa sequela di tagli? Renzi, in conferenza stampa, aveva parlato di 300 milioni di euro, ma anche la stretta sul turn over non sarebbe sufficiente a recuperarli. Nelle tabelle diffuse dopo il consiglio dei ministri, la cifra è stata limata a 200 milioni. In entrambi i casi, comunque, si tratta di fondi ritenuti assolutamente insufficienti da parte dei sindacati.
Per i dirigenti taglio del 10% ai premi di risultato. Gli effetti sugli stipendi delle riduzioni previste nella legge di stabilità
Dal Sole 24 Ore. La «retribuzione di risultato» vale un terzo dello stipendio fra i dirigenti degli enti pubblici non economici, un’area che comprende fra gli altri Inps, Istat e Aci, viaggia intorno al 30% nelle buste paga dei vertici delle agenzie fiscali mentre supera a stento l’11% fra i ministeriali e sprofonda a zero o poco sopra per i presidi e per i “manager” delle Authority.
Sono questi numeri a spiegare i diversi stati d’animo con i quali i vari uffici pubblici stanno accogliendo le notizie in arrivo dai vari testi della manovra, che per i vertici della pubblica amministrazione prevedono una cura con più ingredienti: il più diretto è il taglio secco del 10% ai fondi per le «retribuzioni di risultato», e si accompagna a una sforbiciata del 20% a una serie di leggi settoriali che permettevano di aumentare qua e là i fondi accessori, a un dimezzamento dei posti liberi in dotazione organica e a una norma complessiva, che riguarda sia i dirigenti sia i dipendenti, con cui la legge di stabilità chiede a tutte le pubbliche amministrazioni centrali di tagliare del 10 per cento la spesa di personale. Il pacchetto, che serve anche a recuperare i 200 milioni messi a disposizione per avviare i rinnovi dei contratti pubblici, si completa con il ritorno al turn over al 40% in tutta la Pa, centrale e locale (si veda Il Sole 24 Ore di domenica).
Il taglio è lineare nella forma, e potrebbe rivelarsi casuale nella sostanza. È utile avvertire subito chi non è abituato alle dinamiche retributive pubbliche che il livello raggiunto in ogni amministrazione dai “premi” di risultato non ha nulla a che fare con la produttività, effettiva oppure stimata dai meccanismi più o meno benevoli realizzati in ogni ufficio. La consistenza della dote, che si riflette nei numeri presenti nella busta paga di ogni dirigente, dipende da un’infinità di variabili e dalle storie contrattuali di ogni comparto, ciascuna caratterizzata da scelte diverse nella distribuzione delle risorse fra tabellare, retribuzione «di posizione» (il “bonus” di base che distingue le diverse collocazioni nella scala gerarchica) e, appunto, «risultato».
Le distanze che separano i singoli comparti sono evidenziate dalle retribuzioni medie dei dirigenti in ogni ramo dell’amministrazione, censite periodicamente dall’Aran, l’agenzia negoziale che ora dovrebbe riprendere a fare i contratti pubblici.
La tabella qui sotto si basa sull’ultimo di questi censimenti, e calcola l’effetto sullo stipendio medio dei dirigenti in base al taglio del 10% chiesto dalle bozze della manovra (sempre che sia confermato dal testo definitivo). Il peso è naturalmente maggiore nei settori in cui la retribuzione di risultato è più pesante: per il dirigente medio delle agenzie fiscali il costo arriverebbe a 6.831 euro (cioè 525 euro lordi per 13 mensiilità), negli enti pubblici non economici oscillerebbe fra i 4.402 e i 4.911 a seconda del livello gerarchico mentre per i presidi il sacrificio medio sarebbe di 11 euro lordi.
Anche il rapporto fra queste cifre e i valori assoluti delle buste paga è parecchio variabile, e lo dimostra in modo chiaro proprio il caso degli enti non economici, dove lo stipendio dei dirigenti di seconda fascia è il 60% rispetto a quello che si riceve in prima fascia, ma l’entità del taglio sfiora il 90%. Naturalmente la manovra interviene sui fondi, e lascia alle singole amministrazioni il compito di ripartire l’effetto sulle buste paga: ma è inevitabile che la dieta degli stipendi sarà più drastica dove la retribuzione di risultato oggi pesa di più. (Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore)
20 ottobre 2015