Anche se sono africani, non è giusto che muoiano indifesi di Ebola, le pare?». Ai mali oscuri, e al continente che più di ogni altro li produce, il dottor Giuliano Rizzardini dell’ospedale Sacco di Milano ha dedicato la vita, e glielo si legge in faccia, nel corpo appesantito dalla fatica, la barba trascurata, gli occhi da veterano di battaglie combattute oltre i limiti del rischio personale e spesso perse perché invincibili o inspiegabili.
Ieri l’Aids o la Sars, oggi i germi multiresistenti, in gergo “super bugs”, di cui si parla poco ma che uccidono molto (l’Italia è zona rossa in materia), resi tali e letali dall’abuso di antibiotici prodotti e prescritti con colpevole disinvoltura occidentale. E poi Ebola, naturalmente, la minaccia del mondo e del momento.
Ebola che è diventato in fretta anche una clava da utilizzare con brutale ignoranza contro i neri d’Africa, bambini compresi. Chanel, per esempio, tre anni, respinta dalle mamme di un asilo di Fiumicino perché di ritorno da una vacanza in Uganda, sanissima prima e dopo. O una signora di colore, presa di mira su un bus di Roma e spinta fisicamente a scendere: «Vattene che ci attacchi il virus». Casi isolati che però si diffondono e trovano una sbrigativa sintesi nella marcia dei 40 mila di sabato 18 ottobre a Milano, organizzata dalla ringalluzzita e terrorizzante Lega di Matteo Salvini. Titolo: stop all’invasione. Svolgimento: grazie a Mare nostrum rischiamo Ebola nostrum, chiudiamo le frontiere agli untori, curiamoli pure ma a casa loro. Neanche quello, patriota Salvini, come ammette Jean-Claude Junker, presidente della Commissione europea: «Finché la malattia ha riguardato l’Africa, non abbiamo mosso un dito». Un mea culpa lodevole ma tardivo, come quello, simile, dell’Organizzazione mondiale della sanità: scusateci, abbiamo sottovalutato Ebola. L’ammissione arriva dopo i primi, recentissimi casi in Occidente: Spagna, Germania, Norvegia, Francia, Regno Unito, Stati Uniti. In tutto, quattro morti e una ventina di contagiati, l’ultimo a New York, un medico reduce da un ospedale africano.
Il bollettino di guerra di Ebola dice che a oggi i decessi sono 4.600 a fronte di 9.300 contagiati. Domani saranno di più. Dopodomani ancora. E sono approssimazioni per difetto.
Dottor Rizzardini, per quando prevede i primi ricoveri in Italia? «Se intende i migranti che arrivano sui barconi, sicuramente mai. Troppo lungo il viaggio per raggiungere le nostre coste, troppo breve il tempo di incubazione, da due a venti giorni. Per il resto, non abbiamo scali diretti con le zone calde del virus, cioè la striscia di occidente africano dalla Guinea alla Liberia, e gli aeroporti direttamente interessati come Parigi o Bruxelles sono ben presidiati. Molto improbabile, dunque, che un malato conclamato raggiunga l’Italia. Al massimo potrà capitare un volontario che lavora nelle zone a rischio, come i due medici appena rientrati dalla Sierra Leone e attualmente in quarantena precauzionale. Ma io scommetterei, con la prudenza dell’esperienza, che non succederà. E comunque, siccome Ebola è un virus tra i più cattivi della storia, non sottovaluteremo niente».
Varesino, 56 anni, dopo tre anni nel nord dell’Uganda con il medico missionario padre Ambrosoli, dinastia delle caramelle al miele, dal 2005 Rizzardini comanda la divisione di malattie infettive più attrezzata d’Italia, quella dell’ospedale Sacco di Milano, che insieme allo Spallanzani di Roma è stato scelto dal ministero della Sanità come presidio ad altissimo isolamento nel caso improbabile in cui i Salvini avessero ragione e Ebola dovesse invaderci.
«Una malattia dei Paesi poveri che terrorizza i Paesi ricchi»: Rizzardini ricorda il capitano Drogo di Dino Buzzati, intento a scrutare il deserto dalla Fortezza Bastiani in attesa dell’arrivo dei tartari, nel caso in questione i portatori di questo strano virus lungo come un verme, con tre anelli nella coda, partorito chissà come da un pipistrello della frutta in Congo, passato ad altri animali selvatici e poi, con un salto di specie, approdato alla razza umana, dove sta combinando disastri da più di trent’anni senza che si sia ancora riusciti a trovargli un antidoto. Forse perché i disastri riguardavano, per l’appunto, i corpi di africani, o al massimo di medici o infermieri o religiosi impegnati in loco a curarli. Ma adesso che l’epidemia ha fatto un ulteriore salto di specie, dai derelitti ai benestanti, si studiano vaccini sperimentali un po’ dovunque, dalla Cina al Canada, dagli Usa all’Italia. «Però la cura ancora non c’è, e non mi pare sia alle viste», constata Rizzardini dal bastione del suo ospedale, il Sacco, 140 mila metri quadrati di verde all’estrema periferia nord ovest di Milano, nato come sanatorio nel 1930 per permettere la terapia del sole ai malati di tubercolosi (e infatti conserva ancora palazzine d’epoca con tendoni verdi e lunghe balconate), diventato a metà degli anni Ottanta il primo disperato rifugio per i primi malati di Aids (stavano in una specie di navata a parte, appiccicati l’uno all’altro, si poteva anche fumare, tanto le speranze di sopravvivenza erano zero), e poi cresciuto fino a diventare un centro medico tra i più grandi e avanzati della Lombardia.
Il reparto 56 dell’ospedale Sacco, un palazzo di tre piani con i vetri oscurati e praticamente sigillato, è una delle eccellenze di questa crescita. Quindici dei 70 posti letto sono già attrezzati per le prime, eventuali, vittime
Repubblica – 26 ottobre 2014