«Il dibattito sull’articolo 18? Non ha molto senso». Lucio Giacomardo, avvocato giuslavorista del foro di Napoli, docente presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università Federico II, non ha dubbi. «Perché già la riforma Fornero di due anni fa ha ridotto l’istituto della reintegrazione ad una tutela del tutto residuale».
In che modo?
«A differenza del passato, di fronte ad un licenziamento immotivato, il giudice accompagna la declaratoria di illegittimità con un risarcimento. In sostanza, la reintegrazione resta, in via residuale, solo in due ipotesi».
Quali?
«In caso di licenziamento discriminatorio, cioè per ragioni politiche, sindacali, religiose o legate alla razza, oltre che nel caso di assoluta insussistenza del fatto addotto dal datore di lavoro per motivare il licenziamento».
Sarebbe a dire?
«Ad esempio, se il lavoratore viene licenziato perché accusato di aver posto in essere un certo comportamento, si tratta di un licenziamento disciplinare. Se in giudizio si accerta l’assoluta insussistenza del fatto addebitato al lavoratore, il giudice può reintegrarlo. Diversamente, se il licenziamento viene intimato senza una preventiva contestazione, il giudice può disporre solo un indennizzo in suo favore».
Se, come pare, il governo lasciasse la reintegrazione solo per i casi di licenziamento discriminatorio, cosa cambierebbe nella pratica?
«Che la reintegrazione non si applicherebbe più ai casi di totale insussistenza del fatto, lasciando al datore di lavoro, una più ampia libertà di licenziamento. Ipotesi che non mi pare risponda al criterio di giustizia e che comporterebbe grandi difficoltà, specie per i lavoratori di una certa età, a trovare un altro impiego».
La Stampa – 27 settembre 2014