Tra i temi che entreranno nella contrattazione collettiva futura c’è anche quello della flessibilità nelle mansioni dei lavoratori. Diventa quindi di stretta attualità “fare il punto” sul demansionamento per come viene trattato nelle aule di giustizia, soprattutto per delinearne l’identikit e trovare la linea di demarcazione rispetto al mobbing. Molto spesso, infatti, le due figure vengono richiamate in tandem, anche se sono e vanno tenute distinte. Il “distinguo” tra la dequalificazione professionale e il mobbing si gioca in realtà sul piano della prova. È necessario chiedersi quale può essere l’elemento di distinzione, indispensabile anche per quantificare l’eventuale risarcimento del danno subito.
In caso di accertato demansionamento professionale il giudice di merito può desumere infatti l’esistenza del danno, determinandone anche l’entità in via equitativa
La necessità della prova
La giurisprudenza ha precisato che la dequalificazione non è necessariamente mobbing se non si prova l’intento persecutorio dell’azienda. La Cassazione, con la sentenza n. 12770 del 23 luglio 2012, ha affermato che la dequalificazione professionale non è prova certa di una volontà oppressiva e vessatoria del datore di lavoro. Non si può escludere, tuttavia, solo per questo, il riconoscimento di un indennizzo per il danno morale, biologico e professionale subìto, poiché il demansionamento del lavoratore comporta comunque uno svilimento della professionalità acquisita dal dipendente. La vicenda vede coinvolta un’impiegata amministrativa di un’azienda telefonica trasferita al servizio di centralinista. La Cassazione rigetta il ricorso della lavoratrice sulla domanda di risarcimento del danno da mobbing. L’estensore motiva che i vari comportamenti assunti mobbizzanti, complessivamente valutati, non erano tali da configurare la nozione di mobbing, come delineata dalla consolidata giurisprudenza (Cassazione 87/2012). Alcuni di questi, infatti, non risultavano provati (come il divieto di ritirare gli effetti personali) e la maggioranza di questi risultava legittima (l’apertura della corrispondenza, considerato il divieto di ricezione di corrispondenza personale e quindi la riferibilità a comunicazioni d’ufficio, il trattamento di malattia corrisposto come previsto dal contratto collettivo, la reiterazione delle visite di controllo data la durata dell’assenza per malattia). Quindi, conclude la sentenza, i singoli comportamenti non avevano in sé, congiuntamente e isolatamente considerati, contenuto mobbizzante, sicché dalla loro somma, mancando una qualsiasi prova dell’esercizio abusivo del diritto, non si poteva desumere un disegno persecutorio, fonte di risarcimento.
Danno professionale solo se aggiuntivo e autonomo
Accertato il demansionamento, il giudice deve quantificare il danno in via equitativa. È quanto emerge dalle recenti sentenze della Cassazione. In sostanza, in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’articolo 2103 del Codice civile, il giudice di merito può desumere l’esistenza del danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto. Il principio è chiaramente espresso in Cassazione n. 2257 del 16 febbraio scorso, che ha affrontato l’ipotesi di demansionamento di un lavoratore che da responsabile di reparto di macelleria di un supermercato era stato adibito a compiti di commesso. La Corte, richiamando l’insegnamento delle sezioni unite n. 6572/2006 e n. 26972/2008, chiarisce che il lavoratore che dichiari di aver subito un danno dalla dequalificazione professionale, deve fornire la prova dell’esistenza del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento. Prova che – prosegue l’estensore – è presupposto indispensabile per fare una valutazione equitativa del danno subito. Del resto, il danno patrimoniale non può ritenersi immancabilmente e implicitamente ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo (nel caso di specie il demansionamento), dovendo necessariamente prodursi una lesione aggiuntiva e per certi versi autonoma.
Si pensi alla lesione derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore o alla mancata acquisizione di una maggiore capacità, o ancora, al pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Perciò, la Cassazione ha confermato la pronuncia di appello sul demansionamento poiché il lavoratore aveva subito una perdita rilevante, sia sul piano dell’autonomia e rilevanza delle proprie incombenze, sia del potere di coordinamento, ossia dei tratti qualificanti che caratterizzano la professionalità del lavoratore.
Cambio di rotta, invece, per Cassazione n. 7963 del 18 maggio scorso. Infatti, è sufficiente che il lavoratore alleghi semplicemente la dequalificazione professionale subìta per ribaltare la prova a carico del datore di lavoro. Sarà poi quest’ultimo a dover dimostrare il legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, l’impossibilità di destinare il dipendente ad altre mansioni. Nel solco della giurisprudenza maggioritaria si pone invece la sentenza della sezione lavoro del Tribunale di Milano (giudice Ravazzoni) del 29 giugno 2012. Alcuni lavoratori di una società di telecomunicazioni ottenevano una prima sentenza di assegnazione alle mansioni precedentemente svolte in virtù del demansionamento subito. La vicenda arriva in tribunale: il giudice afferma che la dequalificazione non comporta l’immediata perdita della professionalità, ma trascorso un certo periodo di tempo si può senz’altro ritenere che i lavoratori specializzati in settori tecnologicamente avanzati rimangano privi dell’indispensabile aggiornamento teorico-pratico. Il che, da un lato impedisce l’affinarsi e lo sviluppo della professionalità nell’esecuzione del lavoro, dall’altro compromette una utile ricollocazione nella stessa azienda o, in generale, sul mercato del lavoro. In definitiva, il magistrato quantifica il danno alla professionalità calcolando la percentuale del 30% sulla retribuzione mensile lorda per ogni mese di dequalificazione patita.
Il sole 24 Ore – 26 novembre 2012