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Certificazioni Halal, l’Italia è in forte ritardo. Rossi (Accredia): «Dal primo gennaio 2017 gli Emirati Arabi importeranno solo prodotti alimentari dotati di convalide»

«Abbiamo cominciato quattro anni fa. Tutto stava in una corretta certificazione del caglio. Abbiamo dovuto sperimentare e, considerando i dodici mesi di stagionatura, oggi siamo in grado di vendere forme e tranci di “Grana Padano Halal”». A spiegarlo è Gianluca Boschetti, responsabile marketing di Latteria Soresina, 308 milioni di euro di fatturato e terzo polo lattiero-caseario italiano (dopo Lactalis e Granarolo).

«L’obiettivo – ha spiegato Boschetti – per un gruppo che esporta il 20% della sua produzione è quello di aprirsi nuove rotte di mercato. Nel nostro caso, non prevalentemente in Medio Oriente e penisola arabica. Vediamo soprattutto il potenziale di crescita negli Stati Uniti e in Indonesia. Tanto che c’è già stato richiesto di produrre parmigiano e provolone. Ma sono ancora mercati molto di nicchia. Per ora ci limitiamo al Grana»

Come si sa, la carne di maiale è del tutto bandita dalle tavole islamiche. Ma anche gli altri prodotti – dai formaggi a pane e dolci, dai sughi per la pasta ai piatti pronti – se contengono ingredienti di origine animale (latte o carne che sia), questi devono essere macellati e lavorati secondo standard ammessi dalla religione musulmana.

«Dal 1° gennaio 2017 – ha spiegato Giuseppe Rossi, presidente di Accredia, l’ente unico italiano di accreditamento chiamato a svolgere le verifiche tecnico-sanitarie sugli stabilimenti che richiedono la certificazione Halal ed Esma – gli Emirati Arabi importeranno solo prodotti alimentari dotati di certificazione Halal, ma molte aziende italiane del settore non lo sanno, non ne sono ancora consapevoli».

L’Italia, dunque, sconta un ritardo. Non solo sul cibo. Criteri Halal riguardano anche i cosmetici, i prodotti finanziari e assicurativi.

Accredia ha firmato, lo scorso mese di ottobre, un protocollo d’intesa con l’Autorità degli Emirati Arabi Uniti.

«In Italia – spiega ancora Rossi – comunque cresce l’interesse, soprattutto delle piccole e medie imprese, interessate a cavalcare nicchie di mercato nei Paesi islamici. Ma l’Unione Europea non si muove compatta sul punto. Ogni Paese comunitario decide in ordine sparso e, ad esempio, la Francia rifiuta di sottostare a qualunque certificazione imponga, ad esempio, l’assunzione di personale islamico per ottenere la conformità degli alimenti». Un paio di mesi fa anche Latterie Vicentine aveva ottenuto la certificazione per formaggi quali, tra gli altri, Asiago Dop, Brenta e Grana Padano .

Anche F.lli Saclà, marchio noto che lavora soprattutto prodotti vegetali, ha ottenuto, alcuni mesi fa, la certificazione Halal.

«Abbiamo scelto di farla – ha detto Chiara Ercole, amministratore delegato dell’azienda, che fattura 140 milioni di euro, circa la metà ricavati dall’estero – per le nostre linee di sughi per pasta, che, oltre ai vegetali contengono formaggi. Abbiamo una strategia di crescita nei Paesi sia del Medio Oriente e arabi, ma anche del Far East, Malesia e Indonesia in primis. Non abbiamo sottratto ingredienti ma semplicemente modificato la loro lavorazione».

Attualmente il mercato globale Halal viene stimato in circa 2.300 miliardi di dollari, ed è in crescita di 500 miliardi di dollari l’anno. I consumi di cibo hanno una crescita media, nei Paesi del Golfo Persico, che è di circa il 10% annuo, ad eccezione dell’Arabia Saudita i cui consumi crescono addirittura al ritmo del 40% annuo.

In Italia i consumatori sono 4 milioni e da solo il settore del cibo Halal fattura 13 miliardi di euro: 8 miliardi provengono dall’esportazione e 5 miliardi dal mercato interno. La comunità musulmana residente nel nostro Paese cresce del 10-15% ogni anno. In questo caso, il prodotto Halal assolve anche alla funzione sociale di aumentare il senso di appartenenza all’Italia del consumatore musulmano.

Laura Cavestri – Il Sole 24 Ore – 1 luglio 2016 

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