La pronuncia n. 2894/2013 del Supremo consesso di giustizia amministrativa merita particolare attenzione, in quanto – in sintonia con un orientamento ormai consolidato – riconosce ai pubblici dipendenti il diritto di accesso anche nei confronti degli atti privatistici, che stabiliscono criteri e misura dei compensi incentivanti, mostrando un certo favor nei confronti della trasparenza delle decisioni della PA nella veste di datore di lavoro pubblico. La questione: posizione di risultato del dirigente e diritto di accesso. In dettaglio, la sentenza in esame della terza sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato ha affermato, claris verbis, che l’art. 22 della legge n. 241 del 1990 garantisce ai pubblici dipendenti “privatizzati” il diritto di accesso ai documenti.
Pure in ipotesi di atti riguardanti la predeterminazione dei criteri e dei metodi applicati dall’ente pubblico nella formulazione e nell’applicazione di talune voci retributive, inerenti i compensi incentivanti (nella specie, si trattava dell’indennità di risultato spettante ad un dirigente).
Sul punto, è stata respinta l’obiezione secondo la quale l’istanza d’accesso, nel caso particolare, si risolvesse in un generico accesso ad explorandum, invero di per sé inammissibile. Al contrario, al dirigente interessato viene attribuita una posizione giuridica sufficientemente qualificata e differenziata, che lo legittima ad ottenere i documenti dell’amministrazione che statuiscono, individuandone i criteri generali, in merito al proprio trattamento economico, seppure a carattere accessorio.
Il documento richiesto è un atto generale precipitato dell’applicazione della contrattazione collettiva e di decisioni discrezionali gestionali della c.d. parte datoriale pubblica.
Infatti, tale tipologia di atti adottati da una pubblica amministrazione rientra sicuramente nel novero degli atti c.d. negoziali, non quindi negli atti amministrativi in senso stretto, bensì negli atti di gestione del rapporto di lavoro jure privatorum, eppure ritenuti ammantati in qualche modo da un pubblico rilievo o interesse, tale da giustificarne l’assoggettamento alla disciplina del diritto di accesso di cui alla legge fondamentale sul procedimento amministrativo.
In verità, i giudici di Palazzo Spada danno alla nozione di atto ostensibile, ai sensi della succitata disciplina, un’accezione larga, che abbraccia qualsiasi atto dell’amministrazione pubblica, per il quale possa dirsi sussistere un interesse a verificare la trasparenza della gestione, anche se questa è a connotazione privatistica.
D’altro canto, la legge n. 241 prevede l’accesso non solo nei confronti delle pubbliche amministrazioni, ma anche nei riguardi dei gestori (pubblici o privati, non importa) di servizi pubblici. Motivo per cui esiste una certa casistica di atti, che invero sono di natura privata, epperò coinvolti in, per così dire, dinamiche pubbliche, che meritano di essere considerati alla stessa stregua degli atti amministrativi in senso proprio.
Per altro verso, è pur vero che la ritenuta fungibilità – rispetto alla quale chi scrive ritiene sussistere notevoli spunti di problematicità – tra schemi privatistici e schemi pubblicistici di organizzazione e di gestione della cosa pubblica, che pure è apparsa, in qualche modo, dominante fino a tempi recenti, ma con qualche ripensamento nell’ultimo periodo, nel panorama normativo e dottrinario, non può portare ad arretramenti delle forme di tutela previste dal legislatore proprio per garantire la legittimità, l’imparzialità ed il buon andamento della pubblica gestione (art. 97 Cost.).
Sul punto, quindi, può osservarsi che si è consolidato un orientamento della giurisprudenza amministrativa volto a dare piena garanzia di accesso agli atti sia di c.d. macro-organizzazione (atti amministrativi) che di c.d. micro-organizzazione (atti privatistici) di gestione dei rapporti di lavoro c.d. privatizzati (o c.d. contrattualizzati), sottoposti, ad ogni modo, ad un regime speciale e differenziato rispetto a quelli comuni del mondo privato in senso autentico.
Tale inquadramento è proprio motivato da quelle esigenze che il Dlgs n. 165 del 2001, ma già l’originario Dlgs n. 29 del 1993, riteneva in modo indefettibile presenti nella disciplina del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, anche per i numerosi riferimenti e vincoli di carattere costituzionale.
In effetti, il lavoro a servizio della pubblica amministrazione è funzionalizzato all’osservanza di speciali precetti costituzionali, quali l’art. 28 in ordine alla responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, l’art. 51 secondo il quale tutti i cittadini hanno il diritto di accedere ai pubblici uffici, l’art. 54, comma 2, che impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche il dovere di adempierle con disciplina ed onore, l’art. 97 Cost., che dopo aver sancito i principi di legalità, imparzialità e buon andamento nell’organizzazione dei pubblici uffici, stabilisce che nell’ordinamento degli uffici sono predeterminate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità dei funzionari e poi pone la regola aurea dell’accesso agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni, mediante concorso, ed infine l’art. 98 che statuisce che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.
Un quadro di principi e disposizioni costituzionali, i quali invero hanno comportato che i rapporti di lavoro a servizio della pubblica amministrazione fossero per molto tempo improntati ad una regolazione di stampo pubblicistico (cfr. M. S. GIANNINI, (voce) “Impiego pubblico. a) profili storici e teorici”, in Enc. del diritto, vol. XX, 1970, pagg. 293 e seguenti) e che solo nel 1992-1993 (legge delega n. 421 del 1992 e Dlgs n. 29 del 1993), è stato costruito in chiave privatistica speciale, per la massima parte, con alcune esclusioni sia di categorie di pubblici impieghi, sia di aspetti fondamentali organizzativi in via generale.
Peculiarità del rapporto di lavoro pubblico
Se oggi un dibattito giuridico, ma anche politologico e di scienza dell’amministrazione (cfr. R. CHIARINI, “Le ragioni di un cambiamento: la riforma dell’impiego pubblico in Italia”, in Riv. it. di scienza della politica, n. 2, 2005, pagg. 289 e seguenti) si è aperto sulla bontà della scelta della privatizzazione venti anni or sono effettuata, perlomeno per la dirigenza (ex multis, cfr. A. M. PETRONI, “Le riforme della pubblica amministrazione in Italia: una valutazione”, in Giorn. dir. amm., n. 5, 2013, pagg. 537 e seguenti) e dovrebbe a ratione ritenersi anche per il c.d. alto funzionariato, si impone un profondo ripensamento, peraltro auspicato già da tempo da più parti (cfr.: A. ROMANO, “Un (eterodosso) auspicio di una almeno parziale controriforma”, in Lav. nelle pubbliche amministrazioni, n. 2, 2003, pagg. 265 e seguenti; L. IEVA, “Giudice amministrativo e progressioni interne di carriera”, in Funzione pubblica, n. 3, 2004, pagg. 207 e seguenti), stante l’immanente specialità del rapporto di lavoro alle dipendenze dello Stato o comunque degli enti pubblici autarchici (Cfr. R. CAVALLO PERIN, “Le ragioni di un diritto ineguale e le peculiarità del rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche”, in Dir. amm., n. 1, 2003, pagg. 119 e seguenti).
Inoltre, al fine di poter incrementare l’efficienza dell’organizzazione e dei servizi resi dalle pubbliche amministrazioni, si impongono scelte decise orientate alla creazione di percorsi di carriera improntati al principio della c.d. meritocrazia (cfr. S. CASSESE, “L’ideale di una buona amministrazione. Il principio del merito e la stabilità degli impiegati”, Napoli, 2007, nonché B. G. MATTARELLA, “Il principio del merito e i suoi oppositori”, in Riv. trim. dir. pubblico, n. 3, 2007, pagg. 641 e segg.): qui sta la vera soluzione dei problemi e non certo nel regime pubblico o privato della disciplina del rapporto di lavoro, come erroneamente si è creduto.
Sul punto, va pur ricordato che M. S. GIANNINI, nel suo celebre “Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato” (in Foro amm., 1979, sez. II, pagg. 2667 e seguenti), pensò alla privatizzazione solo per il personale impiegatizio e subalterno, giammai per i dirigenti ed i funzionari (pagg. 2682 e 2683, “C’è allora da chiedersi se un’altra strada percorribile non sia quella di privatizzare i rapporti di lavoro con lo Stato non collegati all’esercizio della potestà pubblica, conservando come rapporto di diritto pubblico solo quello di coloro ai quali tale esercizio è affidato o affidabile, cioè gli attuali direttivi e dirigenti”).
Mentre, il Consiglio di Stato, con la pronuncia dell’Adunanza generale n. 146 del 31 agosto 1992 (in Foro it., 1993, III, colonna 4), con assoluta fermezza ha, fin dall’inizio, sostenuto che esiste una: “diversità ontologica che distingue il lavoro privato dall’impiego pubblico, e, pertanto, appaiono obiettivamente insuperabili ed ineliminabili”, per cui: “la c.d. privatizzazione, se intesa come totale unificazione della disciplina dell’impiego pubblico e del lavoro privato, non appare possibile, anche alla luce delle disposizioni costituzionali in materia (artt. 28, 97, 100, 103 e 113)”, difatti: “la diversità strutturale fra l’impiego pubblico e il lavoro privato, che giustifica una più o meno estesa, ma comunque ineliminabile, diversità di regime, deriva da ciò, che in un gran numero di casi la ‘prestazione lavorativa’ richiesta al dipendente pubblico consiste, in tutto o in parte, nell’esercizio di pubbliche funzioni”, in un simile contesto dunque: “pare impossibile ridurre la posizione soggettiva della pubblica amministrazione ad un mero interesse economico-privatistico a conseguire l’effettuazione della prestazione lavorativa da parte del dipendente; laddove è preminente l’interesse, pubblicistico e generale, al corretto esercizio delle pubbliche funzioni a vantaggio della collettività”.
Resta dunque la considerazione di fondo per la quale la giurisprudenza della Suprema corte di cassazione ha (quasi) sempre tenuto in particolare attenzione gli immanenti caratteri pubblicistici, che connotano il rapporto di pubblico impiego, differenziandolo da quello prettamente privatistico dell’impresa privata (cfr. Cass., sez. un., 6 febbraio 2003 n. 1807, in Giur. it., n. 6, 2003, pagg. 1244 e seguenti: “Le peculiarità che connotano la disciplina del rapporto di lavoro pubblico ‘contrattualizzato’ sono tali da collocare lo stesso a metà strada tra il modello pubblicistico e quello privatistico”).
L’accesso agli atti nel lavoro pubblico
Sotto il profilo che ci riguarda da vicino nella pronuncia in questione emerge, con riferimento all’ambito di applicazione del diritto di accesso, la necessità di riconoscere, nel caso di specie ad un dirigente in servizio presso una Asl, il diritto di accedere ad atti non propriamente amministrativi, ma comunque significativi della buona gestione nell’erogazione dei compensi incentivanti, proprio allo scopo di rendere trasparente e funzionale a criteri di imparzialità e di buon andamento la discrezionalità operata dall’ente pubblico titolare dei rapporti di lavoro anche di qualifica dirigenziale.
La pronuncia merita adesione e rappresenta il segnale della capacità della giurisprudenza amministrativa di evitare arretramenti di tutela nel contesto del pubblico impiego c.d. privatizzato, dove la gestione dei rapporti di lavoro e delle retribuzioni accessorie deve avvenire in un’ottica di trasparenza e funzionalizzazione all’interesse pubblico della buona amministrazione, a tutto vantaggio evidentemente dei cittadini amministrati e utenti.
Ciò nella primaria considerazione che la PA gestisce funzioni e servizi, per così dire, in regime di monopolio, ossia è titolare in via esclusiva di determinate attività stabilite dalla legge e che l’utente non può affatto scegliere alternative, o comunque può scegliere solo in casi molto limitatati, ossia non sussiste ontologicamente concorrenza; motivo per cui l’attività amministrativa, sia che si sostanzi in esercizio di funzioni pubbliche (ad esempio: polizia, giustizia, difesa ecc.), sia che consista nella prestazione di servizi pubblici (in specie, per quelli sociali, sanitari, previdenziali e dell’istruzione), deve trovare, anche nella dimensione della disciplina dei rapporti di lavoro dei propri dipendenti, elementi rigidi di contrappeso, che salvaguardino il superiore interesse alla pubblicità ed alla trasparenza dell’attività, proprio allo scopo di garantirne l’economicità, l’efficacia e l’efficienza ed evitare abusi gestionali.
In questa dimensione, si è più recentemente indirizzato lo stesso legislatore con un insieme di misure normative, quali la legge n. 15 del 2009, il Dlgs n. 150 del 2009 ed il Dlgs n. 33 del 2013, tutti provvedimenti che pongono al centro del sistema la preminenza della regolazione normativa e la cd. accessibilità totale degli atti e delle informazioni della pubblica amministrazione.
D’altro canto, l’imperativo della trasparenza o anche c.d. accessibilità totale, quale focus dell’organizzazione della pubblica amministrazione, se deve valere sul versante “esterno” dei rapporti tra cittadino e ufficio pubblico, non può che valere anche a ratione sul versante “interno” nei rapporti tra impiegato e il medesimo ufficio pubblico.
Osservazioni conclusive
In ultima analisi, il diritto di accesso, per giurisprudenza amministrativa, pressoché costante, informa i diritti e gli interessi dei pubblici impiegati, anche dirigenti, della PA, i quali hanno facoltà di ottenere tutti i documenti rilevanti la gestione del rapporto di lavoro, che abbiano un qualche riflesso sulla propria posizione lavorativa.
La decisione
Consiglio di Stato, sez. III, decisione 27 maggio 2013 n. 2894
La massima
Diritto di accesso dei dipendenti pubblici privatizzati – Dirigenti pubblici – Conoscenza dei criteri e metodi applicati da una Asl per il pagamento della retribuzione di risultato – Sussiste
Nel campo del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il dipendente è portatore di un interesse qualificato alla conoscenza degli atti e documenti che riguardano la propria posizione lavorativa, atteso che gli stessi esulano dal diritto alla riservatezza e che l’art. 22 della legge n. 241/1990 garantisce l’accesso ai documenti amministrativi relativi al rapporto di pubblico impiego “privatizzato”, anche se le eventuali controversie attinenti a detto rapporto sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario. In particolare, l’istanza di accesso di un dirigente volto a conoscere i metodi applicati dalla pubblica amministrazione datrice di lavoro (nel caso di specie, una Asl) nella determinazione e nell’applicazione del pagamento della retribuzione di risultato è preordinata alla tutela di un interesse puntuale ed attuale.
Lorenzo Ieva, dottore di ricerca in Diritto pubblico e dirigente della PA
Il Sole 24 Ore – 12 luglio 2013