Roberto Mania. Uno scambio per rilanciare la produttività. È questo l’obiettivo del governo che ha convocato per martedì nella Sala Verde del terzo piano di Palazzo Chigi i leader di Cgil, Cisl e Uil insieme al presidente di Confindustria, Squinzi. L’appuntamento della prossima settimana è sì una coda della Direzione del Pd sul Jobs Act, visto che sull’avvio di un dialogo tra governo e parti sociali aveva molto insistito la minoranza del partito, ma è anche il tentativo di provare a riscrivere, con una prospettiva di medio lungo termine, le regole della contrattazione.
Perché se da oltre dieci anni la produttività del lavoro italiana è rimasta ferma mentre è costantemente cresciuta in altri Paesi europei a cominciare dalla solita Germania, e dalla Francia, l’altra grande malata del continente, vuol dire che qualcosa non funziona anche nei meccanismi di negoziazione tra le parti sociali. Non funziona perché le imprese investono poco in innovazione e in formazione del capitale umano, ma non funziona anche perché c’è — come rileva da tempo la Commissione europea — un disallineamento permanente tra le dinamiche retributive e l’andamento della produttività. A far crollare la competitività dei nostri prodotti ci pensa poi la pesantezza del cuneo fiscale e contributivo. E tutto questo genera i suoi effetti negativi sulla crescita dell’economia. Dunque quando Renzi dice ai sindacati che «devono cambiare» pensa, in questa fase, al loro ruolo, insieme a quello della Confindustria, nei contratti di lavoro. Qui davvero spetta agli attori sociali cambiare. «Il cambiamento deve riguardare tutti», ha detto ieri il vicesegretario del Pd Debora Serracchiani. «Ognuno nel proprio ruolo deve fare la sua parte. È una sfida anche per i sindacati».
L’”ordine del giorno” dell’appuntamento di martedì (dovrebbe essere in serata) contiene i temi dello scambio possibile: la legge sulla rappresentanza sindacale in cambio di una accentuazione della contrattazione di secondo livello (aziendale e territoriale) dove gli incrementi di produttività possono essere trasferiti nelle buste paga. Implicito in questo scambio il declino del contratto nazionale di categoria. Non per nulla nell’ordine del giorno c’è un terzo argomento: il salario minimo per legge (già previsto nel Jobs Act per le categorie prive di contratto) che potenzialmente prefigura un nuovo modello di contrattazione dove ai trattamenti minimi fissati ora dal contratto nazionale si sostituirebbe la legge sul salario minimo. Ci staranno i sindacati? E le imprese?
Martedì Renzi, sempre che intenda aprire una trattativa, rischia di ricevere tanti no e alcuni sì condizionati. L’apertura sulla legge sulla rappresentanza sindacale, per capire chi è davvero più rappresentativo, risponde soprattutto alla richiesta della Fiom di Maurizio Landini (domani sarà l’unico italiano a partecipare ad Atene alla festa del movimento di Alexis Tsipras), tagliata fuori, per effetto della mancanza di una legge, dai tavoli negoziali alla Fiat. Ma non piace affatto alla Cisl e alla Uil da sempre schierate a gelosa difesa dell’autonomia dei sindacati su queste materie. Cisl e Uil rilanceranno al governo la proposta di recepire in una legge l’accordo sottoscritto proprio all’inizio di quest’anno con la Cgil e la Confindustria e sul quale ha espresso parole di forte apprezzamento pure il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Su quel testo però c’è la netta opposizione di Landini che non si è mai piegato, provocando una frattura nella Cgil, alla posizione di Susanna Camusso.
Con una legge sulla rappresentanza (Renzi ne parlò fin dal suo discorso programmatico davanti alle Camere) si porrebbero le premesse — ragionano a Palazzo Chigi — per estendere in tutte le aziende la contrattazione. È un sistema però destinato a scontrarsi con le caratteristiche del nostro sistema produttivo dove oltre il 90% delle imprese sono piccole e non hanno alcuna intenzione ad aprire le porte al sindacato. Anche in questo c’è la differenza con il modello tedesco nel quale la partecipazione dei sindacati è permessa proprio grazie alle grandi dimensioni delle aziende. La discussione sulla rappresentanza è già “incardinata” nella Commissione Lavoro della Camera dove sono state presentate diverse proposte di legge da Pd, Sel, Fi (prima firmataria Renata Polverini ex Ugl) e dalla Fiom che ha raccolto le firme necessarie. Ma in Parlamento si dovranno fare i conti con l’ostilità del Nuovo centro destra, il cui consenso non è del tutto irrilevante al Senato. Percorso, quindi, pieno di ostacoli e imprevisti. D’altra parte, nonostante la Costituzione lo richieda, se non c’è mai stata una legge sui sindacati è perché da sempre una maggioranza trasversale (non solo politica) è contraria.
Senza la legge sulla rappresentanza però lo scambio sarebbe quasi impossibile. E allora ciò che temono i sindacati (soprattutto la Cgil) è che il governo possa ispirarsi alla proposta che la Confindustria ha presentato a maggio. Lì dove in sostanza si disegna un modello contrattuale à la carte: o si applica il contratto nazionale o si applica quello aziendale. L’uno in alternativa all’altro. Il modello Marchionne, per la verità. Che per realizzarlo è uscito dalla Confindustria e dal sistema di contrattazione nazionale. Ed è clamorosa ormai la sintonia tra il premier Renzi e l’ad di Fiat-Chrysler.
Repubblica – 5 ottobre 2014