Che fine hanno fatto gli ultimi due decreti attuativi del Jobs act, la riforma del lavoro? È passato più di un mese da quando, era il 20 febbraio, il Consiglio dei ministri ha approvato i due provvedimenti, quello che correggeva alcune regole sulla maternità e quello che, anche con lo stop ai co.co.pro, dovrebbe favorire la trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato.
Ma in Parlamento, dove sono attesi per il parere delle commissioni Lavoro, non è ancora arrivato nulla. I due testi sono ancora fermi sul tavolo del governo. E al centro di uno scontro fra la presidenza del consiglio e la Ragioneria di Stato, l’organo del ministero dell’Economia che ha l’obiettivo di garantire la «corretta gestione e la rigorosa programmazione» delle risorse pubbliche. Qual è il problema? Tutto ruota attorno alle risorse che il governo ha messo sul piatto per l’intero pacchetto del Jobs act. Con il decreto sui co.co.pro. il governo vuole spingere quelli che oggi sono rapporti di lavoro precari verso il nuovo contratto a tutele crescenti, già operativo, che è a tempo indeterminato anche se non c’è più lo scudo dell’articolo 18 contro i licenziamenti. Quanti potrebbero essere i lavoratori precari trasformati in lavoratori a tutele crescenti? Nei giorni scorsi era stato il responsabile economia del Pd, Filippo Taddei, a indicare in 300 mila la soglia minima. Sarebbe un ottimo risultato dal punto di vista della stabilità del lavoro. Ma anche un problema per il governo, un rischio per la tenuta dei conti. Perché? I contratti precari hanno in media un basso salario ma portano nelle casse pubbliche parecchi soldi, visto che i contributi possono coprire, a seconda dei casi, il 24,5% o addirittura il 30,75% della paga. Il nuovo contratto a tutele crescenti, invece, non porterà quasi nulla. Perché, oltre al licenziamento più facile, a renderlo attraente è proprio il fatto che i contributi non si pagano, con uno sconto che può arrivare fino a un massimo di 8.060 euro l’anno per tre anni. Un successo politico potrebbe diventare un problema economico. Lo scontro che va avanti da un mese è proprio su questo punto. E non si trova una via d’uscita tanto che la prossima settima è previsto a Palazzo Chigi un incontro considerato «decisivo» fra governo e Ragioneria generale dello Stato. Non è il primo braccio di ferro sul Jobs act. Già sul contratto a tutele crescenti la Ragioneria aveva sollevato perplessità, sostenendo che i quasi 2 miliardi di euro stanziati per coprire lo sconto sui contributi potessero non bastare. Adesso quel nodo torna al pettine. Nei giorni scorsi erano circolate voci anche di una completa riscrittura del decreto sui co.co.pro. E alcuni osservatori – come Adalberto Perulli, professore di diritto del lavoro all’Università di Genova – avevano parlato di «falso superamento della precarietà». Il punto è che il provvedimento non cancella le forme di collaborazioni più datate, quelle regolate per legge nel 1973, che non prevedono nemmeno i minimi contrattuali. Ma il testo non dovrebbe cambiare. Si tratta di una valvola di sfogo per poter sottoscrivere contratti parasubordinati nel rispetto della legge. Una richiesta arrivata soprattutto dal vasto mondo della creatività, cultura e spettacolo dove ci sono poche alternative a questo tipo di rapporto. E che, non soggetta allo sconto sui contributi, porterebbe anche qualche soldo nelle casse pubbliche.
Lorenzo Salvia – Il Corriere della Sera – 22 marzo 2015