Oltre 5 mila animali di grossa taglia vivono in cattività Per i proprietari è un servizio alla ricerca (e alle famiglie con bambini). Ma gli animalisti insistono: «Basta scuse, ora vanno chiusi»
Chiamatelo come volete: zoo, giardino zoologico, parco faunistico, safari park, o se preferite zoo safari… La sostanza non cambia. Animali di specie e taglie diverse che scandiscono il tempo con pasti serviti da umani e che vivono i giorni in un eterno avanti-indietro: i più fortunati in territori grandi abbastanza per un’esistenza dignitosa, gli altri in spazi appena sufficienti a qualche salto o a pochi passi. «Stanno bene, non hanno bisogno di cacciare e non si ammalano» è la risposta standard di chi si sente chiedere «ma non starà un po’ stretto là dentro?». «Stretto? Nooo. Lui sta bene così». Sarà.
La «giungla» burocratica
Benvenuti nel mondo degli zoo che più lo vedi da vicino più assomiglia a una giungla, soprattutto se parliamo di norme, verbali, licenze, regolamenti, linee guida, sopralluoghi, ministeri di riferimento. Benvenuti in un argomento per il quale non sarà mai firmato un trattato di pace. Perché non ci sarà mai nessuna stretta di mano fra gli animalisti che vorrebbero gli zoo tutti chiusi per sempre e i proprietari che sono convinti di essere benefattori per gli animali, la ricerca, la riproduzione e per le famiglie con bambini.
Un passo indietro nel tempo. La direttiva europea che stabiliva il da farsi con chi aveva animali da proporre al pubblico, fu firmata nel 1999. Noi ci abbiamo messo sei anni per trasformarla in legge ma finalmente, nel 2005, anche l’Italia ha scritto nero su bianco le regole per cambiare la concezione stessa degli zoo, non più soltanto aree con animali in gabbia da esporre ai visitatori ma luoghi da trasformare fisicamente per assicurare un «elevato livello qualitativo nella custodia e nella cura» degli ospiti, chiamiamoli così. Posti e progetti in grado di garantire benessere ed esigenze biologiche, di riproduzione e di conservazione ad animali che nella stragrande maggioranza non hanno mai vissuto nei loro ambienti naturali perché nati e cresciuti in cattività.
Gli animalisti
«Solo belle parole vuote» attacca il direttore generale dell’Enpa Michele Gualano. «E invece gli zoo vanno chiusi. Ragioniamo in prospettiva per eliminarli impedendo la riproduzione, e basta con la scusa che servono alla scienza e all’educazione». Gli fa eco Roberto Bennati, vicesegretario della Lega Antivivisezione: «La chiusura è l’unica via possibile. Centinaia di migliaia di animali sono detenuti in strutture inadeguate, come dimostra la nostra inchiesta più recente su i più importanti dieci zoo italiani, tutti con gravissime violazioni. Cosa c’è di educativo nel mostrare un leone o una scimmia in gabbia? E poi non è vero che sono nati tutti in cattività, c’è un traffico di animali prelevati in natura». Michela Brambilla, deputata e presidente della Lega italiana difesa animali e ambiente, dice che «gli zoo sono istituzioni ottocentesche», che «non hanno più senso» e ricorda di aver depositato una proposta di legge sulla loro «abolizione e riconversione».
Dopo dieci anni
Comunque la pensino gli animalisti, sulla carta l’anno della rivoluzione è il 2005, con la legge nr.73. Sono passati dieci anni. Di cose ne sono cambiate, certo, ma siamo ancora indietro. Al ministero dell’Ambiente — competente per la questione zoo con il supporto dei ministeri delle Politiche Agricole e della Salute — fanno quel che possono ma il fatto è che si sono ritrovati in tre a gestire una situazione tanto delicata quanto complicata. E il risultato è che ci siamo meritati un richiamo della Commissione europea, per inadempienza. Un ruolo centrale nei controlli dei giardini zoologici e dei loro animali è poi affidato al Corpo Forestale dello Stato con il suo Servizio Cites, dove Cites sta per Convenzione di Washington sul commercio internazionale di fauna e flora a rischio di estinzione.
Quando arrivò la legge gli zoo esistenti avevano due scelte possibili: chiedere la licenza adeguandosi alle nuove norme oppure chiedere di esserne esclusi (diventando così «mostre faunistiche») perché in possesso di un numero di esemplari o specie ritenuto non significativo. Si fecero avanti in 86. Numero delle licenze concesse finora: 48, 21 sono zoo degni del loro nome, 27 sono le «mostre» degli esclusi. Cinque i parchi chiusi: tre per licenza negata e altri due perché sotto sequestro della magistratura.
Per tutto il resto vale il tasto «pausa». Sospensioni, ritardi, burocrazia, irregolarità non sanate, carte bloccate per una firma… Dopo dieci anni quasi la metà di chi chiese di mettersi in regola vive in una specie di limbo, magari perché è ancora in corso il «concerto» fra i ministeri, oppure perché chi si occupa dei sopralluoghi ha chiesto adeguamenti non ancora eseguiti, a volte perché manca il parere di questo o quell’ufficio, altre volte perché non ci sono documenti.
Un censimento nazionale degli animali e delle specie non esiste, o almeno: nessuno ha assemblato i dati dei singoli zoo (quelli sì esistenti) per poter dire che oggi abbiamo in Italia un numero «x» di elefanti o un numero «y» di coccodrilli. Si stima che la cifra complessiva sia di circa 5000-5500 animali di grossa taglia. Impossibile l’inventario dei singoli pesciolini o delle farfalle, tanto per intenderci. E ci sono altri dati che mai nessuno ha messo assieme: il valore economico del settore e il numero esatto degli addetti ai lavori che vanno dal veterinario ai gestori, da chi lavora negli uffici a chi accompagna i visitatori, dagli etologi a chi si occupa del cibo.
I numeri
Per immaginare i dati che mancano a livello nazionale si può prendere a esempio le cifre dei singoli parchi zoologici. Sull’occupazione basti il dato dello zoo safari di Fasano (300 mila visitatori l’anno, 140 ettari di safari e parco divertimenti): fra lavoratori fissi e stagionali nei mesi estivi si arriva a impiegare 150 persone. Per farsi invece un’idea del giro d’affari partiamo dal fatto che, salvo rare eccezioni, il costo medio di un biglietto per uno zoo di dimensioni medio-grandi è di 20 euro. Il che significa che 100 mila ingressi l’anno valgono due milioni di euro, senza contare gli annessi parchi-divertimenti, gadget, bar, hotel, ristoranti… Il solo Bioparco di Roma conta 650 mila visitatori l’anno, al Natura Viva (Verona) si arriva a circa 400 mila, 300 mila al Safari Park di Pombia, stessa cifra allo «Zoom» di Cumiana (Torino) e alle Cornelle, vicino Bergamo.
La contropartita sono costi di gestione e mantenimento decisamente alti. Anche qui, un esempio: per tenere in piedi «Zoom», considerato il parco zoologico più moderno e all’avanguardia, servono ogni anno più o meno 4 milioni di euro. La voce di bilancio più alta è il personale, ovviamente, seguita dal cibo e cioè quintali e quintali di carne, pesce, ortaggi, frutta, erba, fieno, foglie. Tanto per capire: una tigre adulta può mangiare anche dieci chili di carne al giorno, servono carriole piene di frutta per sfamare una famiglia di scimpanzè, sono necessari una cinquantina di chili di verdura e fieno per nutrire un elefante adulto e ne servono 40 di erba per soddisfare un rinoceronte. E che sia cibo buono. La vita da reclusi è già dura.
Giusi Fasano – Il Corriere della Sera – 1 marzo 2015